La ferita è scesa in ciò che abbiamo amato – Alessandro Bellasio

La ferita è scesa in ciò che abbiamo amato - Alessandro Bellasio

foto di Dino Ignani

 
 
Contro una soglia buia
saremo reclamati
da una voce antecedente
 
inchiodati
a un silenzio che scava
 
nemmeno noi capaci
di nominare la morte che siamo
 
 
 
 
 
 
Il romanzo del giudizio
si è avverato, qui,
fra le parole amate
e le parole estreme,
che non hai tradito:
patto
che fu sigillo, sangue forte,
prezzo vero di ogni inizio.
 
“Da sempre
tu
sei stato qui: ora
discendi
impara
lo scalpo, la scheggia che ti uncina,
il poco bene che si brucia
lontano da chi dona –
la prima, deportata gioia,
la data”.
Qui
il sangue
si è gelato nell’inchiostro,
la sete
ha crepato l’acqua –
tutto
ci ha lasciati
una sola volta.
 
Qui la lacrima
è entrata nelle cose,
la notte
ha colpito il battito,
oscuramente
la ferita è scesa in ciò che abbiamo amato
 
 
 
 
 
 
…e non sarò che terra,
ultima roccia
di un patimento lontano
qui venuto a prendermi vivo:
così
sarò,
scarnito nell’elettrodo
piantato dentro il freddo
piegato contro il miglio
da cui non c’è ritorno
 
affinché più mio più
mostrato
sia ciò che si diventa,
che si strappa, si perde in questo vento
con la morte e con il pianto
 
nel tempo e nell’urto
 
 

(Alessandro Bellasio, Nel tempo e nell’urto, Pordenonelegge – LietoColle, 2017)

 
 
 
 

In questi testi di Alessandro Bellasio, con un dettato scarnificato, preciso ed efficace, si traccia un ritratto spietato dell’esistere in relazione a tutti gli agenti che comprimono e sembrano rendere insignificante la presenza individuale, la sua coscienza, il suo mondo interiore: la morte, il tempo, il dolore, la perdita.

Ciò che si avverte non è però un’opposizione tra l’io del dettato e questi agenti esistenziali, in una dinamica di antagonismo attivo o passivo, ma il testo suggerisce che la presenza di questi elementi critici sia l’effettivo coefficiente di valore, presupposto di un sentire positivo e di una scoperta di senso e di prospettiva.

Il tono è particolarmente incline a un senso di sacrificio, in cui il soggetto – con un tono spesso salmodico – con partecipazione preconizza “saremo reclamati / da una voce antecedente” … “nemmeno noi capaci / di nominare la morte che siamo”.

È interessante rilevare come martirio etimologicamente stia a significare testimonianza: la proclamazione di questa natura imperfetta e provvisoria, che contiene già in sé il codice della propria disgregazione, del proprio destino di cenere, viene immediatamente annunciata nel testo iniziale. Altrettanto interessante è rilevare come cenere (in greco σποδός) sia all’origine del termine splendore.

Questo per quanto riguarda il futuro: ma “Da sempre / tu / sei stato qui: ora / discendi” … nell’esistere, invita Bellasio, e immergiti interamente nell’imperfetto prodigio del vivere, anche se “il sangue / si è gelato nell’inchiostro, / la sete / ha crepato l’acqua” e “tutto / ci ha lasciati / una sola volta”, senza possibilità di recupero (dirà nuovamente: “piantato dentro il freddo / … da cui non c’è ritorno”).

Ed è nell’ultima strofa del secondo testo scelto che si intravede quanto detto in precedenza: il dolore causato dagli agenti esistenziali (“la lacrima”) entra nelle cose, il mistero che sfugge alla ragione (“la notte”) colpisce il battito, e “la ferita è scesa in ciò che abbiamo amato”. La rarità della bellezza, la sua istantaneità è ciò che la rende preziosa, e tutto ciò che la precede e la conclude, per quanto appaia doloroso, circoscrive anche il suo effettivo valore e coefficiente di splendore, nonostante non ne resti, appunto, che cenere.

“… e non sarò che terra, / ultima roccia / di un patimento lontano … da cui non c’è ritorno”: la comprensione intima di questa dinamica si fa accettazione dello svanire, in ultima istanza, della propria coscienza, che si confonde alla realtà circostante ed inorganica, lontano dai travagli dell’esistere, “affinché più mio più / mostrato / sia ciò che si diventa, / che si strappa, si perde in questo vento / con la morte e con il pianto”.

Lo si ribadisce: è proprio attraverso questo lasciare andare, incorporando il mondo e i fenomeni, e gli agenti esistenziali circostanti, che sembrano minacciare la coscienza e il proprio stare nel mondo, che il valore della sofferenza, del trascorrere del tempo e della perdita, riesce a diventare chiave di valore, addirittura di appartenenza e di identità – forse provvisorie – eppure oltremodo preziose.

 

Mario Famularo