La difficile facilità – Appunti per un laboratorio di poesia – Claudio Damiani


“Scrivere per me non è tanto qualcosa che ha o che non ha senso, quanto qualcosa che lo ricerca, il senso”
(C. Damiani)

La difficile facilità – Appunti per un laboratorio di poesia, Claudio Damiani (Lantana Editore, 2016).

La poesia come recupero della tradizione e sguardo sul mondo, in cui dialogare con il nostro tempo senza rinchiudersi in un sé sterile, “l’avventura” di una maturazione con i grandi maestri e nella dialettica feconda delle riviste, l’orizzonte della letteratura: spunti, riflessioni autobiografiche, spigolature, critica letteraria, appunti antologici, interviste costituiscono La difficile facilità – Appunti per un laboratorio di poesia, libro a firma di Claudio Damiani apparso qualche tempo fa per l’editore Lantana in cui il poeta si racconta senza fronzoli e veli in un lungo percorso di vita e di scrittura.

Siamo al cospetto di un protagonista attento e cordiale, disponibile e instancabile di una postmodernità che egli rivendica quale momento per una rivisitazione della poesia, lontana da tentazioni neoavanguardistiche da cui pure fu lambito in gioventù (memore dell’insegnamento del mèntore Elio Pagliarani) per cercare invece di tornare alla classicità, ai fondamenti di quel genere che l’Italia ha largamente diffuso. Nomi come quelli di Petrarca e Pascoli, suoi riferimenti ormai duraturi, studiati compulsivamente e approfonditi vieppiù, non possono essere tenuti distanti dall’attualità così come i classici latini e greci o l’antica sapienza poetica cinese: il ritorno alla natura come centro della costruzione letteraria (“poiché laddove la poesia si distacchi dalla natura si distacca da sé stessa”), che pure ha in autori come Umberto Piersanti, Pietro Tripodo o Giancarlo Pontiggia dei protagonisti di eccellenza, l’attenzione ai movimenti di un’umanità in difficoltà, il bisogno di tornare a scrivere di virtù, debbono emergere e farsi verso.

Nelle pagine della Difficile facilità, espressione ossimorica mutuata dallo stesso Petrarca, Damiani rimarca in più occasioni il debito di riconoscenza, professionale e amicale, maturato verso il compianto Beppe Salvia con il quale nel 1980 fondò “Braci”, rivista autogestita di slancio e fervore anti ideologico, protesa verso un recupero del miglior filone poetico italiano puntando soprattutto sul valore della lingua, rivista che seppur durata solo 4 anni ha inciso a fondo in un periodo di vivace confronto letterario. L’autore, che ha esordito a fine anni Settanta su Nuovi Argomenti grazie all’imprimatur di Attilio Bertolucci passando nel corso del tempo da un “endecasillabo naturale” a una “segreta metrica” come ama chiamarla, trova un suo stile nella profondità dell’essere umano, lungo i sentieri che affrontiamo nell’esistenza: in ciò la lingua, lo splendido idioma italico, può e deve rivestire un valore non mutuabile, scevro da ogni sovrastruttura o preziosismo.

Ed è proprio in questo ambito che il poeta nato nel 1957 a S. Giovanni Rotondo e residente ormai da anni nel buen retiro di Rignano Flaminio, insiste, quasi in forma maniacale giacché oggi, nell’epoca della surmodernità, per dirla come il da poco scomparso Marc Augé, contrassegnata da storpiature e camuffamenti di significato delle parole tramite i fagocitanti social, appare tutto più liquido, meno percepibile, evanescente e superficiale. In punta di penna vengono commentati i versi di questo o quell’autore, con una breve antologia di quattro significativi contemporanei come lo stesso Salvia, Giuliano Goroni, Davide Rondoni e Umberto Fiori, mentre la narrazione autobiografica ci conduce tra i banchi di scuola superiore al cospetto di un Damiani docente sempre curioso di instillare nelle giovani generazioni l’amore per la conoscenza, quella conoscenza che può ancora suscitare incanto e meraviglia.

In un breve capitolo del volume dedicato all’amato Orazio, di cui è stato traduttore, l’autore rammenta il senso ultimo della poesia: “Essa è l’arte del togliere, è stare nel mezzo, cercare il centro del mondo”, dunque una scelta ben definita di porsi all’ascolto del “rumore continuo della vita”, in perfetta equidistanza tra gli individui, dove permanere sempre. Di fronte a un verso oscuro, ambiguo, paludato il poeta romano predilige la chiarezza, la capacità di dire le “cose piccole” che sono in realtà quelle grandi ed essenziali, in ciò recuperando dall’insegnamento pascoliano mediato da Salvia il senso ultimo dello scrivere in versi: paura e speranza sono i due poli che Damiani esplicita nel suo dire, compenetrati l’uno nell’altro.

Assistiamo a una confessione a tutto tondo, verace e onesta, rilasciata ad amici scrittori come a nuovi adepti o amanti della poesia ai quali Damiani risponde con sincerità ed entusiasmo, con un’acuta volontà di verità e di esattezza calviniana: l’importanza della scuola e di una nuova presa di coscienza generale su di essa, la lettura come nutrimento fondamentale, la necessità di un dialogo sempre più serrato tra arte e scienza fuori da irrazionalismi e fanatismi, l’arte che enuclea la sacralità degli esseri viventi, lo studio della metrica e della retorica fondamentali per ogni scrivente che voglia assurgere a scrittore, il poeta come “trovatore”: pagine illuminanti, quelle de La difficile facilità, che richiamano “addetti ai lavori” e non solo a raccogliere la sfida di una poesia alta e umile che sia nel mondo una luce sempre accesa, con quell’ottimismo che nonostante tutto sarebbe esiziale abbandonare.

Federico Migliorati

 
 
 
 
È quasi primavera, io dipingo
già fuori sul terrazzo, tra odori
di mari lontani e queste vicine
piante di odori. La salvia la menta
il basilico e i sedani dipingo
su tele bianche con pochi colori.
Il verde perché son verdi le piante,
e bianco il bianco nulla della tela,
e il rosso dei tramonti su la vela
del cielo che apre un teatro vero
e questi miei pensieri. Io dipingo
la sera quando i tormenti più vivi
accendono il cielo e bruciano il cuore
e all’alba quando è già nulla la vita.
 
(Beppe Salvia)
 
 
 
 
 
 
Questo
 
Buoni bisogna essere: perché
è il bene l’unico bene.
Essere veri, si deve.
Si deve vivere come si deve.
E si deve dovere.
 
Al centro dell’isolato,
specchiato nel suo specchio l’ascensore
sale, vuoto.
 
(Umberto Fiori)
 
 
 
 
 
 
Una novità era rendere
al plenilunio che nascondo
silenzio fatto rami, intricati
nel profondo, e, di ramo
in ramo, le foglie nelle mani,
una pallida guancia
o una palpebra già lieve
sulla punta delle dita
che timida scolori.
 
(Lorenzo Calogero)