La città che non si chiamò Romula

Giulietta Capuleti aveva le idee chiare al riguardo: il nome, quella marca di riconoscimento che designa sin dalla nascita ogni essere umano, non è in fondo che un’etichetta arbitraria e neutrale, priva di rapporti con la persona che designa. La rosa, se anche non si chiamasse rosa, non perderebbe nulla del suo profumo; e così Romeo, qualunque altro fosse stato il suo nome, avrebbe conservato intatto l’incanto che lo rendeva così amabile. Di qui l’accorato invito effuso dalla fanciulla nel buio di una notte veronese, mentre il suo uomo la ascoltava non visto a poca distanza: «Romeo, lascia andare il tuo nome; e in cambio di quel nome, che non è una parte di te, prendi tutta me stessa».

Giulietta aveva naturalmente ottime ragioni per pensarla in questo modo. Tutt’altra era invece l’opinione dei Romani, per i quali, al contrario, il nome è una parola potente, in grado di agire sulle cose e di modificare la realtà. Se ad esempio potessimo assistere al momento in cui veniva arruolato un esercito – un evento che aveva luogo praticamente ogni anno a cadenza fissa, dato che nel mondo antico lo stato di guerra rappresenta la norma ed è piuttosto la pace a costituire un’eccezione –, sentiremmo il magistrato addetto alla leva chiamare per primi nomi come Valerio, Statorio o Salvio, anche quando nella lista degli arruolabili quei soldati non erano presenti: era infatti necessario che i nomi in questione fossero pronunciati per via del buon augurio di cui erano portatori. Valerio suggeriva infatti l’idea del valore che i soldati dovevano dimostrare in battaglia; Statorio era di buon auspicio per la stabilità e la tenuta delle truppe, fondamentali in un tipo di guerra che assegnava la vittoria a chi fosse riuscito a far indietreggiare il nemico, sloggiandolo dalla sua posizione; ancora più trasparente era poi Salvio, dal quale si traeva l’augurio che i combattenti tornassero a casa sani e salvi.

Ma la potenza dei nomi non riguardava solo gli esseri umani: la stessa attenzione i Romani la mostravano verso le città, al punto da modificare i loro toponimi se questi fossero risultati di cattivo auspicio. Prendiamo il caso di Malevento, teatro nella prima metà del III secolo a.C. di una importante vittoria romana: quel nome derivava probabilmente da un termine della lingua sannitica, mal, che significa “collina”, ma alle orecchie dei Romani evocava piuttosto l’avverbio male, dalle risonanze decisamente sinistre. Detto fatto, con un ritocco chirurgico la città fu ribattezzata Benevento, stornando così il cattivo presagio del suo nome originario.

Che dire poi di Egesta, il centro della Sicilia nord-occidentale che il mito voleva fondato da Enea in persona? Quella città venne affidata dall’eroe troiano a un suo compagno, Egesto, che le diede il proprio nome; solo che quel nome era molto simile alla parola latina egestas, che significa “povertà” o “situazione di bisogno” e che dunque non prometteva nulla di buono per il futuro della fondazione. Anche in questo caso si intervenne con un ritocco minimo, ma decisivo: Egesta fu trasformata in Segesta, con il doppio vantaggio di cancellare l’assonanza negativa e di crearne invece una di buon augurio, perché il nuovo toponimo richiamava il nome della messe di grano, seges.

E Roma? Che cosa pensavano i Romani sul nome della loro città? Quel nome, essi ne erano certi, era stato imposto dallo stesso Romolo, che lo aveva tratto dal suo. Ma se così era, perché Romolo non aveva chiamato la sua fondazione Romula invece che Roma, proprio come il troiano Egesto aveva scelto, per la sua, il nome di Egesta? La risposta è presto detta: perché i Romani avrebbero percepito quel nome, Romula, come un diminutivo. E questo sarebbe stato un pessimo presagio per una città che nelle intenzioni del suo fondatore era destinata a grande potenza. A dirla tutta, però, le cose sarebbero andate ancora peggio se a prevalere nella contesa sulla fondazione fosse stato il gemello Remo e la futura città si fosse chiamata Remora, come quest’ultimo avrebbe voluto: il nome di Remo derivava infatti per gli antichi da un termine che indica lentezza, indugio, al limite paralisi. Un toponimo come Remora, insomma, sarebbe stato una zavorra destinata a pesare sul futuro della città invece di darle ali per volare alto, non molto diversamente da Romula. La scelta di Roma, invece, metteva tutto a posto; e guardando le cose a distanza di quasi tremila anni, è difficile negare che Romolo abbia avuto ragione.