Jules Laforgue

Jules Laforgue

 

 

Si fa un po’ di fatica a trascrivere poesie di questo senza Dio, grottesco fino all’inverosimile, benché fasciato di amici poeti. Una sfinge, un platonico pensare (ma c’è anche Budda). Perché la religione importa, non può essere ignorata. Così tocca anche i senza Dio.

Jules Laforgue nacque, secondo di undici fratelli, il 16 agosto 1860 a Montevideo, la capitale dell’Uruguay. Il padre era un emigrato francese, la madre apparteneva a una famiglia di calzolai in Normandia. Ma presto tutti si trasferiscono a Parigi. Nel 1877 la madre muore dando alla luce il dodicesimo figlio.

Nel 1879 Laforgue comincia a pubblicare poesie su riviste. Nel 1881 scrive la raccolta Il pianto della terra. Augusta, imperatrice di Germania, prende Laforgue come consigliere culturale (a cominciare dal francese). Nell’85 esce Lamenti. Nel 1886 in Inghilterra sposa Leah Lee. Ma nel 1887 è stroncato dalla tubercolosi. Aveva 27 anni. A inizio ‘900 escono le Opere complete.

La sua, scrivono gli studiosi di Laforgue è una poesia ironica e acre. Tra malinconia e scherzo si dipanano i suoi versi.

Pierangela Rossi

 

 

 

 

Apoteosi

 

Da ogni parte, in eterno, formicola il silenzio
d’un brulichio di grappoli d’astri d’oro che vanno
mescolando intrecciati il loro turbinio.
Parrebbero giardini di diamanti inghiaiati,
eppure ognuno cupo risplende e solitario.

E in quell’angolo ignoto, laggiù, dove sfavilla
una scia di rubini malinconicamente,
tremola una scintilla, patriarca che fa luce
alla propria famiglia, e par che dolcemente
ammicchi mentre per i cieli la conduce.

La sua famiglia: sciame di pesanti, fioriti
globi. E in uno, la Terra, un punto giallo, Parigi,
e là sospeso, un lume, un povero folle in veglia:

nell’ordine del cosmo, unica meraviglia.
Fragile. Ne è lo specchio d’un giorno, e lo sa.
Ci pensa a lungo e sopra un sonetto ci fa.

 

 

 

 

 

 

Curiosità fuor di luogo

 

Io sì, voglio sapere! Dite! A che pro queste cose?
dov’è di tutto il Testimone? Perché il cosmo avrà
da qualche parte un cuore nelle sue metamorfosi!
– Ma se solo un cantuccio di quest’immensità

occupiamo! un cantuccio! e laggiù all’infinito
dispiegarsi di spazi! torme di più felici
fratelli! i quali un dì non troveranno più traccia
di noi, quando anche loro passeranno di qui!

Ed io domando ancora, pazzo di dubbio e d’angoscia!
Perché almeno un Enigma esiste! e aspetto! aspetto!
niente! Ascolto le ore cadere a goccia a goccia.
-Posso morire! Io! Chi impietosisce il tempo?

Morire, esser più niente, nel silenzio riimmerso!
aver vagliato i Cieli e andar via zitto! per sempre!
senza nulla sapere! tutto dunque è demenza!
-Ma chi dalla notte ha estratto l’Universo?

 

 

 

 

 

 

Natale scettico

 

Natale! Natale! le campane nella notte…
Ho posato la penna su questi scettici fogli:
o ricordi, cantate! Il mio grande sconforto
mi riprende, e fugge via tutto il mio orgoglio.

Queste voci di notte che cantano Natale!
dalle navate accese portano, a me diretto,
un così dolce, tenero rimprovero materno
che il cuore troppo gonfio scoppia dentro il mio petto…

E a lungo nella notte resto in ascolto ancora…
Io sono il paria della famiglia umana
cui porta il vento nella sua squallida dimora
lo struggente brusio d’una festa lontana.

 

 

 

 

 

 

La sigaretta

(sonetto)

 

Sì questo mondo è piatto, e quanto all’altro, frottole.
Senza speranza vado, mansueto, alla mia sorte:
per ammazzare il tempo, aspettando la morte,
fumo in faccia agli dèi sottili sigarette.

Su, viventi, affannatevi, o scheletri futuri.
Me, l’azzurro meandro che verso il cielo si torce
mi sprofonda in un’estasi infinita e m’addorme
come ai morenti aromi di mille bruciatori.

Ed entro nel fiorito Eden dai sogni chiari,
dove elefanti in fregola s’intrecciano alla fioca
danza delle zanzare, in fantasiosi valzer.

E quando poi pensando ai mi miei versi mi scuoto,
contemplo, il cuore pieno di dolce gioia, il caro
mio pollice arrostito come un cosciotto d’oca.

 

 

 

 

 

 

Giochi

 

Ah! la Luna, la Luna mi assedia…
Credete che vi sia un rimedio?

Morta? E non può essere che dorma
nei fumi di cosmici cloroformi?

Rosone in sepolcrale inflorescenza
della Basilica del Silenzio.

Tu persisti nel tuo atteggiamento,
mentr’io soffoco nell’isolamento!

Sì, è vero, hai il seno ben fatto;
ma se non una volta mi ci allatti?…

Un’altra sera e in riso all’aria sparse
Se n’andranno le mie insipide farse,

e del mio degno platonismo faranno
l’estasi del pescatore con la canna!

“Salve, Regina dei gigli”! trapungere
ti vo’ con le mie farfalle notturne!

Voglio baciar la tua patena triste,
piatto vuoto del capo del Battista!

Voglio trovare un “lied” che ti tocca
Sì che tu migri verso la mia bocca!

-Ma son finite le rime con Luna…
Ahimè! che lamentevole lacuna!