Michele Paoletti intervista Ivan Crico
Ivan Crico ha vissuto a Pieris (Gorizia) fin dalla nascita. Ha iniziato gli studi artistici nel 1981 diplomandosi in pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia nel 1992. Contemporaneamente ha approfondito lo studio della letteratura dialettale, italiana ed estera con studiosi come Amedeo Giacomini, Gianmario Villalta (con cui ha iniziato una collaborazione con la maggiore rivista di studi dialettali europea, “Diverse Lingue”) e con Pierluigi Cappello (con cui ha ideato la collana di poesia la “Barca di Babele”, con testi anche di autori friulani, bisiachi, triestini).
Dopo essersi inizialmente segnalato come poeta in lingua, nel 1989 ha cominciato ad impiegare anche il nativo idioma veneto “bisiàc”. Della sua poesia si sono occupati i maggiori critici italiani da Brevini a Tesio, da Loi a D’Elia, con articoli su “Il Corriere della Sera”, “La Stampa”. “Il Sole 24 Ore”, e in numerose presentazioni dei suoi testi in Lombardia, Veneto, Austria, Slovenia, Croazia.
Nel 2009 ha ricevuto il maggior riconoscimento dedicato in Italia ai dialetti e alle lingue minoritarie, il “Premio Nazionale Biagio Marin”, per il libro edito “De arzent zù” e nel 2018 il “Premio Ischitella” per la raccolta inedita “Seràie”.
A prescindere dalla lingua in cui scrivi, come nascono le tue poesie?
Il punto di partenza è, sempre, un senso di fortissimo stupore ed emozione di fronte a qualcosa. Che può essere provocato dall’ascolto o dalla lettura di una storia già vissuta, di un fatto appena accaduto, o dalla visione di immagini che mi si stagliano davanti imponendomi di dar loro, in forma scritta, una voce. In assenza di questo nucleo emotivo profondo – la sola cosa per me capace di donare verità e durata ad ogni parte del testo – nemmeno inizio a scrivere. Ad una prima stesura, quasi sempre di getto, poi segue un lungo lavoro di rielaborazione formale, che può accompagnare un testo anche per anni ma mai in modo distaccato, su una materia – per le ragioni spiegate dianzi – che continua per me a rimanere incandescente.
Credi che il dialetto sia più efficace per trattare alcuni temi particolari? In che modo scegli di usare italiano o dialetto quando scrivi?
Negli idiomi locali, “lingue della realtà” come sono stati ribattezzati, solitamente la sfera concettuale – ed è uno dei loro aspetti più intriganti – di fatto non esiste. Per cui, se devo includere in un testo dei concetti o termini che non fanno parte della mia parlata nativa la scelta, naturalmente, tende a spostarsi verso la lingua italiana. Devo dire, però, che mi sento di fatto bilingue; e questo mi porta molte volte a visualizzare simultaneamente sia la versione nel mio idioma materno che quella in lingua, che, quasi sempre, di conseguenza, non considero una semplice traduzione ma un testo con una sua autonomia e precisa identità.
La tua raccolta De Arzènt zù è scritta utilizzando un idioma estinto, il tergestino, che si parlava a Trieste fino ai primi anni dell’Ottocento. Ci vuoi raccontare come si è svolta l’operazione di ricerca dei vocaboli e di composizione dei testi?
A Trieste, nella libreria che fu di Umberto Saba, da ragazzo mi imbattei in un piccolo libretto, “I dialoghi piacevoli in vernacolo tergestino”, che testimoniavano la presenza, nella città, di una scomparsa antichissima parlata ladina. Con mio sommo stupore, mi accorsi che nel mio arcaico “sermo rusticus” sopravvivevano ancora alcuni di quei termini ormai altrove estinti. La scoperta di quella comunità linguistica, talmente rimossa da portare ancor oggi alcuni a negarne anche l’esistenza (da più di due secoli a Trieste si parla una originale variante del veneto), mi spinse a studiare diversi anni più tardi a fondo quel linguaggio sentendo, al tempo stesso, la necessità urgente di restituire una voce a quel mondo brutalmente sepolto dall’incredibile sviluppo economico e demografico di una città in rapidissima espansione grazie all’apertura del Porto Franco. Ne nacque una piccola raccolta di poesie che scrissi, per me solo, nel 1998 e che rimase, come si suol dire, nel cassetto per un decennio. La cosa strana è che le scrissi tutte di getto, partendo da alcune brevi frasi contenute dei “Dialoghi” e ritrasformandole e decontestualizzandole completamente per parlare di cose che mi stavano a cuore, con una naturalezza ed una padronanza di quel linguaggio che sorprende me per primo. Poi, dopo una settimana circa di tempesta emotiva, il flusso creativo si interruppe all’improvviso e capii che non avrei scritto, mai più, una sola parola in tergestino. E così è stato. Riesumata casualmente nel 2008 e subito pubblicata, grazie all’interesse di alcuni studiosi come Pavle Merkù e Tino Sangiglio (grande traduttore di Kavafis), da allora quelle voci sommerse hanno avuto così, ancora una volta, per vie del tutto imprevedibili, la possibilità di tornare a chiedere di non essere dimenticate.
Non in maniera eccessivamente diffusa, ma comunque presente, la poesia in dialetto continua ad essere scritta e pubblicata. Secondo te perché il dialetto si presta maggiormente ad essere utilizzato nel linguaggio poetico invece che in prosa?
Il testo in prosa, immagino, per la sua natura maggiormente comunicativa e per l’impegno temporale (ed economico, se si tratta di romanzi voluminosi) che richiede, tende non solo idealmente a raggiungere il maggior numero di lettori possibili. E la possibilità di diffusione, a livello nazionale, di un romanzo o di un libro di racconti scritto interamente in dialetto, è pari allo zero; e, ancor più, diventa impensabile l’idea di un romanzo in dialetto con traduzione a fronte, il che lo renderebbe eccessivamente voluminoso e costoso. Da noi esistono molti romanzi in lingua friulana, anche belli (come quello del grande Carlo Sgorlon), che però patiscono questa enorme limitazione. Per ovvi motivi, il teatro in dialetto ha ancor oggi una sua presa; ma qui il testo non è tutto, c’è anche molto altro per poter far passare un messaggio. Per la poesia è diverso. La possibilità, per il lettore, di confrontare agilmente l’originale con la traduzione in pochi minuti, come facciamo spesso anche con le nostre canzoni preferite, ha sempre permesso ai lettori, anche ai più distanti geograficamente, di poter avere un rapido avvicinamento al testo, una maggiore empatia. Il lettore attento di poesia, inoltre, è abituato a percorrere terreni impervi, non si impaurisce di fronte alle difficoltà; e questo sicuramente gioca a favore di chi sceglie di esprimersi impiegando linguaggi condivisi, a volte, solo da pochissimi parlanti, che si tratti di qualche parlata ladina o di quella dei membri di un villaggio sperduto nel cuore dell’Amazzonia.
Come percepiscono le nuove generazioni, secondo te, la necessità di tenere vivo il dialetto? Credi che nel tempo i dialetti sono destinati a scomparire?
La crisi di questi antichi linguaggi nel mondo moderno è sotto gli occhi di tutti. Nella nostra regione, da sempre plurilingue, però sono ancora molto impiegati per fortuna, anche se l’abitudine di parlare in lingua ai bambini, negli ultimi decenni, sta creando anche qui nuove generazioni che magari capiscono perfettamente i vari idiomi locali ma non sanno parlarli bene o li parlano con difficoltà. D’altra parte, ci sono anche molti giovani che vedono in questi linguaggi un modo per distinguersi ed avere una propria voce all’interno di un mondo sempre più omologato e tendono così, a volte, a riappropriarsi della lingua dei padri, di quella lingua che i genitori si erano sforzati in tutti i modi di non trasmettere ai figli.
Credi che la diffusione dei social possa contribuire all’impoverimento della lingua e quindi all’abbandono del dialetto?
I social, inaspettatamente, sono diventati il più formidabile strumento per scrivere e comunicare negli idiomi locali che si sia mai visto nella storia. Non si è mai scritto così tanto in dialetto come oggi, sopratutto su Facebook, dove milioni di persone ogni giorno nel mondo comunicano tra loro scrivendo in dialetto o nelle varie lingue delle minoranze linguistiche. Un tempo si scriveva in dialetto su riviste di associazioni locali, su giornali satirici o stampando qualche libro di poesia. Quindi molto di rado, con testi vagliati e spesso censurati, parlando di argomenti specifici. Oggi sui social in dialetto si scrive liberamente di tutto, parlando di fatti di cronaca fino alle ricette ma anche di arte e filosofia. Un fenomeno assolutamente imprevedibile, fino a pochi anni fa, in cui anche gli studiosi più illuminati davano ormai per morta, al di fuori di ristrette cerchi di cultori, la scrittura in dialetto. A dimostrazione che bisogna essere sempre molto prudenti prima di trarre affrettate conclusioni, lasciare sempre spazio all’impensato.
Stai lavorando a un nuovo libro? Puoi anticiparci qualcosa?
La mia ultima raccolta inedita, su cui lavoro da due anni ormai, si intitola “Seràie”. Prende il nome da delle lunghe reti, disposte a semicerchio vicino alla riva, utilizzate dai nostri pescatori bisiachi del monfalconese per un tipo di pesca settoriale, molto nota in loco, detta “La Trata”. Da anni, nel mare sconfinato del web, vado anch’io a mio modo a pescare, isolandole dal resto, tutte le notizie che riguardano storie di persone che in modi diametralmente diversi – con motivazioni dal punto di vista morale anche opposte – hanno scelto di sacrificare la propria vita per amore dei figli, dei propri concittadini, di chi con esse condivide la pena di diritti negati od un credo, per salvare una specie animale od una foresta. Questo anche per cercare di sottrarle ad una rapida sparizione sotto stratificazioni di materiali di ogni genere, complice un linguaggio, quasi sempre, non memorabile. Nel dicembre del 2016 dunque ho iniziato a lavorare ad una nuova raccolta – in due versioni simili ma distinte: in dialetto ed in lingua – che parla soltanto di persone che sono realmente esistite e di fatti realmente accaduti (tutti facilmente rintracciabili in rete), spesso impiegando in forma poetica – con una tecnica simile a quella del “collage” ma sempre finemente filtrate dalla mia sensibilità – le loro stesse parole o di chi le ha conosciute o studiate.
Passàie
I.
Cubia sostansie
del vìvar tòu che vanti
de des le iera sparnissade –
no le pareva mai tacar – in ciaro
mete ‘na sacuma de ti che la iera
nidada como sai squaiadi
ta i paredi ‘nbunbidi, muciadi via
pa’i ani. Menadi despò de l’aqua
t’un védar e non védar fin ta la pela
s’ciopada de le stabilidure.
Cubia a ogne curta
luse le longhe vizilie
del scur, bianc de calsina
‘npitrinida ta ‘l lin
setà sora de palpiere
par senpre
serade.
Tente, como sufiade
del vent, de polvar o biau
smarì. Le se sfanta, ta i volti
de la sera, i aquissi signi de tera
rossa de le ulteme
ciaculade.
Al mantil ros
de ‘na femena cu’l velussipede
che ‘l se liga cu’la negra
strica del sial de l’antra
femena arente ma romai,
ta l’unbrìa, che squasi
no se la vede.
Al veva de pàrar cussì
al vìvar, sàcuma – ti- de ‘na muda
cuntìneva. Como che l’oc’
al pode rivar guantar nome
che nete meludie de note, fracade
ta’l terno scalenbro calibrio
del siel, del saldàn.
- Passaggi
Unisci elementi / della tua vita che prima / d’ora erano sparsi / – sembravano inconciliabili – in luce / poni una forma di te / che si celava come sali disciolti / nelle pareti umide, accumulatisi / negli anni. Portati poi dall’acqua che risale / all’improvviso fin sulla pelle / esplosa degli intonaci. II. Strica le someànse infra le erbe, fior, samense e radise cun zelade, menadìsse, sponghe de mar, al lustro fruà de le ostreghe cuide drio del sion. Ta la longa tola albissa lùmele. ‘Npènsete ligànbui, serca passaie oltra le brusie che le se ‘ncalma t’un muvimént largo, ‘ngala le sason arente como ancoi al sprafumo dei cori del garofular la salbia, l’orar. Ora drìo ora scogna doventar senpre più sbrissulèntui, lassar de bando ogne cunvinsion. ‘Npìnete de culori che i fa contrast – vanti de duti al bianc – o anca quei del sotosera quei de tera che le rame le tamisa del castagnar, le foie de fin istà del pomogranà. Ta’l perlin letrico del Colfo, sughi de ua ta’l vent, de salso. No siste più loghi seguri ma libari e ciari. Co la luse de l’alba de sera la muda par nantri la viduta in t’una lienda pricisa de aqua, rasa, sangue, sbrocada de nou del scur la sfiuridura de le tere. II. Evidenzia le assonanze / tra erbe, fiori, semi e radici / con tessuti, legni ossificati, spugne / marine, la madreperla abrasa / delle ostriche raccolte dopo / la mareggiata. Sulla lunga / tavola bianca osservale. Crea / corrispondenze, cerca una contiguità / che si innesta / in un ampio movimento, feconda / le prossime stagioni come adesso / il profumo delle bacche / di rosa la salvia, l’alloro. III. Largura como de negro sintulìn, sircundada in cau de monte negre. E larghe ta i rivai bande de zal sòlpar. Sbisulade de coerti de banda maculadi vernisadi de verdo, de ros, naranson o de biau. Toca de védar buse de aqua o trasparenta o perlìna. Le rive le se ‘ncioda de brut t’una altona scuriera. Ciapi bocononi de usei, s’cese de onde ‘ncantade de la criura de zenar e zornade: ta’l suvignir dei zorni lassar vanese fonde como ta la dura piera, como tai sesti i trosi scundudi del pardon, lìsiere cuntìneve desdiossade talpe de aqua. III. Pianura come di nera cenere / vulcanica, circondata all’orizzonte da montagne / nere. E vaste