Si parla tanto, in questi giorni, di chiusura della Collana di Poesia di Mondadori che, ripeto, a quanto ne so è solo un’ipotesi nata dalla conclusione del rapporto di collaborazione fra Antonio Riccardi e la Casa Editrice in merito alla suddetta collana. Un vociare di corridoio sostanzialmente, dove le accuse non mancano e non si sprecano. Anche io ho voluto dirne qualcosa (qui). La certezza che resta è questo volume di Milo De Angelis, edito un mese prima del presunto patatrac (chiamiamolo pure così, almeno fino a che non ci saranno definizioni), che a fronte del nome De Angelis rende di difficile comprensione questa ipotetica improvvisa chiusura. Insomma nulla toglie che si possa terminare una collana con le ultime perle, però è poco probabile.
Ad ogni modo esce questo libro, Incontri e agguati, che a una velocissima lettura delle diverse recensioni unisce tutti negli elogi. Leggiamo ad esempio Giuseppe Genna che dice (qui): E’ per me l’autore della vita, insieme a Eliot e Celan e Hugo. Potrei sembrare agiografico, se non avessi compiuto la lotta necessarissima contro il padre, perfino contro il fratello maggiore, vincendola come chiunque. E’ con cognizione di causa dunque che affermo che questo libro, il più recente di De Angelis, compie un passo in un’infinitudine cruciale, qualcosa di matematico e di animico, e così pure di animale, il quale è esatto nella strategia con cui conquista la preda e minuzioso nella nutrizione. E’ una delle cifre qualificanti dell’intera poesia di Milo De Angelis, che pure dispone di una moltitudine di caratteri, e di caratteristiche. Qui c’è il digesto di un’esistenza né finita né sfinita, la trattativa con la morte iniziata con l’inizio di sé, la nascita degli universi e il guizzo della traduzione da Tucidide – quella versione che doveva essere al tempo stesso esatta e minuziosa e inventata. Punto cieco in cui si vede il cosmo, punto che si sposta secondo la metrica inafferrabile eppure necessitante e certo anche nella sintassi che realizza un cortocircuito della mente, la quale è tutto, il libro di Milo De Angelis è un compimento, una sorveglianza, un’altitudine vertiginosa, un genetliaco. Il tempo è sospeso eppure marca un’esistenza. Oppure Luigi Sorrentino (qui): Una raccolta bellissima, quella di De Angelis, che nella lettura, a tratti, mi ha fatto risuonare nella testa la voce dell’ Also sprach Zarathustra, (Così parlò Zaratustra), di Friedrich Nietzsche là dove il filosofo scriveva: “Amo quelli che non sanno vivere che per sparire, perché sono coloro appunto che vanno di là.”
Ovviamente parliamo senza ombra di dubbio di uno dei più grandi poeti in vita, per cui anche il suo verso meno riuscito rischia di posizionarsi a un livello infinitamente più alto della media. Ma un poeta, quando così grande, si deve inevitabilmente confrontare con se stesso. Il poeta è un corridore a cui non basta (o non si perdona) di correre solamente più veloce degli altri. Deve superare il proprio record, quando non almeno ripeterlo. Con questo non voglio dire che Incontri e agguati corre meno degli altri suoi libri, anzi. Solo che, personalmente, resto innamoratamente ancorato a Tema dell’addio (di cui qualche osservazione interessante qui, a cura di un’ottima Claudia Crocco). Ma c’è un verso in questo libro, un verso solo fra tutti, che a mio avviso bene sintetizza quest’opera: e ti amo, come si ama un seme fecondo e disperato. Un amore complesso, fatto di incontri e agguati, di bene e male in quella disperazione d’amore che se non è la vita almeno è il vivere. Perchè questo libro implicitamente spiega la differenza tra vita e vivere negando in qualche modo l’esistenza del concetto astratto e suggerendo che è l’interazione tra gli esseri umani, quasi a un livello pasoliniano, l’unica esistenza. Appunto il vivere.
Partendo dal presupposto che tutto è composto da persone Milo De Angelis inizia il suo libro in un particolarissimo modo che, forse più per affetto personale di chi scrive questo articolo, riporta alla mente il medesimo uso della tematica (la morte) che è stata fulcro privilegiato e ricovero di un altro grandissimo poeta, oggi negato alla poesia dalla malattia: Mario Benedetti. Una morte che è il vero e proprio agguato inserita in una trincea che è officina dove ti racconto. La morte, in questo caso, a differenza della vita è quasi una persona a sé con la quale dialogare, trattare, patteggiare la propria e l’altrui esistenza: Con la morte ho cercato ancora / un patto, ma lei era astuta e discontinua. Una morte che, similmente a Benedetti, viene rappresentata come un momento espanso e analizzato in tutti i suoi indizi e milligrammi che sono squisitamente del e nel vivere. Tanto che non puoi immaginare, amico mio, quante cose / restano nascoste in una fine.
Ma la morte è appunto solo l’incipit di un insieme di incontri, di presenze umane: dimostri che i corpi, / come un paesaggio, s’incontrano all’infinito. Questo tu, che sono evidentemente tanti tu, nei momenti più toccanti reitera un appellativo che pare quasi un’invocazione, amico, una preghiera all’incontro o al ritrovo: Ti ritrovo alla stazione di Greco / magro come un rasoioe ulcerato da un chiodo. Sono queste presenze che riempiono il termine pur più volte ripetuto vita con un vivere fatto di persone, di incontri e agguati: “E lo dici sorridendo?” / “Si, la mia vita è sorridente”. Il libro conclude il suo percorso nella sezione che personalmente ho trovato più bella, e convincente, dell’intera raccolta: Alta sorveglianza. In questa il delitto e l’amore si intersecano in versi luminosi ed evidentemente partecipatissimi dall’autore. Fra tutti, mi permetto, il bellissimo parlavi di lei oscura furia delle melograne. Verso che da solo potrebbe tenere in piedi e giustificare l’intera raccolta. Una sezione sostanzialmente sentimentale ma che sottolinea quanto dentro ogni incontro ci sia anche l’agguato, la sua tremenda possibilità.
Un libro che misura la distanza fra i due concetti che compongono il titolo invocando trasversalmente gli uomini, la loro umanità, il loro vivere. Senza sconti o paternalismi, senza facili pietismi che comunque non compongono la poesia di questo grande autore essenziale, pulito. Un libro che sicuramente si presenta come una delle migliori pubblicazioni degli ultimi anni. Ma De Angelis è sempre De Angelis, e forse è necessario leggerlo e rileggerlo per coglierne il sangue tra i versi senza farsi distogliere dalla grandissima umanità che fa preziosi da decenni i suoi versi. Che poi dopo un libro del genere Mondadori decida di chiudere la Collana di Poesia, onestamente non lo so. Mi viene sempre più difficile crederlo.
Questa morte è un’officina
ci lavoro da anni e anni
conosco i pezzi buoni e quelli deboli,
i giorni propizi, la virtù
di applicarsi minuto per minuto e quella
di sostare, sostare e attendere
una soluzione nuova per il guasto.
Vieni, amico mio, ti faccio vedere,
ti racconto.
Poi, di colpo, un lunedì di febbraio
tutto è tornato come prima… è uscita
dal suo feudo,
ha fatto incursioni, all’alba,
nella casella della posta, ha ripreso
la sua cerimonia incessante, ha diffuso
un canto di puro gelo
ha cercato proprio noi.
Guardo la tua testa sul cuscino,
guardo la sonda e la flebo farsi tempo
e contrasto tra il giorno e le pupille
e la boccetta avvelenata ormai volava
in uno splendore di notturni
e tutto divenne infinito dilemma:
nel regno chiaro della scelta tu volevi
morire, non c’è dubbio, lo volevi e hai chiamato
l’ultima ora ma lei ha risposto con un sussurro
di giovane donna dai guanti viola
e tu hai esitato.
In carcere bisogna parlare
lo sanno anche i taciturni come te
il veleno si fa strada in ogni silenzio
la notte ti interroga ti interroga
e tu alla fine hai risposto
parlavi di lei corpo sposa tenaglia
lei come una grazia folgorata
nessuno nel vederla resta vivo
parlavi di lei oscura furia delle melograne
luce selvaggia al cadere di una veste
assoluto mescolato all’ora d’aria.
Era l’aggravarsi
di ogni atto nel buio di se stesso,
la cieca evasione, l’indulto
che ha potuto liberarci
per una notte sola,
per una sola notte sterminata.