In un inguine momentaneo – Antonella Angelini

C’era un oracolo
di rovere e inno di cielo libero.
Ancora con anime volano faide
a chi mi terrei in mera grazia.
Cala i tralci in marea
che mi ammalia scemando
l’aria nata blu
e poi goccia stilla.
A braccia alzate dure
su coclea svelata pieghe d’ali
passa vera l’aria.
Se le Erinni si fanno luna di prima era
che nera se ne va non è la riva
la mora cade via sicura nella stiva
e l’onda sbatte torna spuma di raso
incontra il sale,
incontra la saliva.
Nell’ara verrà la novena
e lì non è chimera
che m’inventerà
semipiena.
 
 
 
 
Luna tonale
figura colma siano
gli istanti monumentali
chi ti vede rinascere
la triste meiosi
cispa di seno
inumida le notti
sull’orlo
vibra il pungiglione
succulento batte il tempo
di un giro interrotto altrove
la dinastia riposa
in un inguine momentaneo
il dissesto è rinascere di prima Eva.
 
 
 
 
Là s’imbruna
il pizzo appeso al tombolo
un dito punto alla finestra della domenica.
Parla commossa di essenze chiare a spina di pesce
incrociate alle mie gambe scorticata a poco a poco dalla pianta all’inguine.
Tu sei felice dell’acquisto e non piove da ore.
Il pantalone si è scucito dove nessuno vede
un corvo si irrigidisce. Osceno il nero
maciullato dagli scoppi dei gerani.
 
 

Continua il ciclo di Poesie al microscopio dedicato al lavoro di Itaca – colonia creativa e il suo laboratorio di poesia Calliope diretto da Giuseppe Nibali (già nostro partner, QUI). Gli appuntamenti precedenti hanno visto l’analisi dei testi della veronese Valeria Valotto (QUI) e della ferrarese Francesca Soriani (QUI). Oggi leggiamo i versi della pugliese Antonella Angelini.

Antonella Angelini è scienziata politica e si occupa come ricercatrice e attivista di diritti del lavoro nelle catene globali del valore. In parallelo porta avanti una pratica di scrittura creativa e di performance, caratteristica intuibile anche dalla gestione dei suoi versi. Non più esordiente, ha pubblicato materia soffice (Italic, 2021) e collaborato con varie riviste. Elemento quest’ultimo che pure si evince dalla capacità, non banale nè improvvisata, di creare immagini interlacciate e forti, si potrebbe dire appese tra una tensione quasi mitologizzante nell’uso dei simboli e quello che appare un innamoramento carnale della materia (e si usa appositamente il termine presente nel titolo del suo edito).

Nella pagina del libro, nel sito dell’Editore (QUI), si legge:

Materia soffice (termine che in fisica designa una sottocategoria della materia condensata che resiste fortemente alla compressione, ma debolmente al taglio) è un diario sensoriale sulla materialità del pensiero, sul suo adattarsi alle altrettanto diverse sollecitazioni – pressioni, vincoli, sbarramenti, dilatazioni – di un tempo desertico, pulviscolo di momenti senza nome. Le sezioni in cui è articolata la raccolta corrispondono agli otto tipi di dispersioni colloidali, una delle due classi di materiali soffici, la cui caratteristica comune è la presenza di particelle di varia natura (solide, liquide o gassose) immerse in un secondo materiale (solido, liquido o gassoso). Per ogni componimento, la parola cerca di cogliere la specifica natura del pensiero e quella del suo ambiente di dispersione quando sottoposto a una compressione o ad altra forma di sollecitazione esterna.

Descrizione che bene ritorna nei testi che qui presentiamo con l’aggiunta di un interessante (a tratti notevole) uso delle immagini come simboli ascendenti, ovvero che si contrappongono alla materia e alla sua matericità carnale con una messa a fuoco quasi luminosa, o che comunque ha come riferimento la sfera sensoriale del visivo, della luce (C’era un oracolo / di rovere e inno di cielo libero […] Se le Erinni si fanno luna di prima era / che nera se ne va non è la riva […] Luna tonale / figura colma siano […] Osceno il nero / maciullato dagli scoppi dei gerani).

Non credo si possa parlare di una vera e propria deriva simbolista ma di tensione tra opposti conniventi, e che non di rado si scoprono affatto contrapposti. È vero che la Puglia non è nuova a questo approccio poetico, si pensi alla poesia dell’immensa Claudia Ruggeri quanto al libro (indimenticato) di Claudia Di Palma, Altissima miseria (una nota precedentemente uscita su Laboratori Poesia QUI). L’accostamento di sale e saliva, la presenza delle Erinni, la prima Eva ma anche il pungiglione che succulento batte il tempo / di un giro interrotto altrove si muovono in questa direzione e tradizione.

Con le dovute distanze (che un poco si accorciano in quella luna tonale) torna alla mente Éluard, quell’evocare immagini e sensazioni che fanno attrito con la logica razionale.

Ma la poesia non deve necessariamente essere logica nè tantomeno razionale, e se l’impatto alla lettura privata convince nasce la curiosità di una lettura performativa, che come detto si intuisce nella gestione del verso ma anche dello stile. Lettura per ammassamento e climax che molto emerge dalla gestione della sonorità (Nell’ara verrà la novena / e lì non è chimera / che m’inventerà / semipiena).

Fino a quello scoppio dei gerani che, pur lasciando l’agrodolce ombra di un dubbio montaliano (il girasole impazzito di luce, eco volontaria o casuale? O lettura fuorviante di chi scrive?), convince e molto perché di fatto parte dall’acquisto di un semplice indumento (Tu sei felice dell’acquisto e non piove da ore. / Il pantalone si è scucito dove nessuno vede). Appare un corvo che evoca una qualche oscurità (e non si può non pensare al The Raven di Poe, per quanto ormai banale possa essere il rimando tanto è stato abusato negli anni) con una gestione del verso che qui diventa addirittura sapiente. Un corvo si irrigidisce. Osceno il nero passa dal precedente Il pantalone si è scucito dove nessuno vede con uno scarto logico che obbliga alla rilettura, al riordino, e all’interno di questa dinamica allontana il colore (nero) dal corvo sia nel verso sia in virtù del punto fermo in mezzo.

Ma inevitabilmente nero è quel corvo, osceno ma anche maciullato, che in mezzo verso finale trova un ribaltamento totale e visivo in quel dagli scoppi dei gerani che non cita luce alcuna, ma è come se l’avesse dentro (e per questo a chi scrive torna la succitata eco montaliana). Nella materia e nella carne.

Alessandro Canzian