IL VELIERO CANNIBALE 25 – LE BALENE DI AUDIERNE

Bozza automatica 2890

Deauville,_Marée basse – Eugene Boudin

 
 
 
 

Malinconie, anacronismi e moralismi del Capitano Peleg

 
 

Moby Dick è il libro che più si avvicina al Libro dei libri. In nessun altro si disputa intorno all’esistenza di Dio, o alle prove della sua inesistenza. In uno l’immensa Arca; nell’altro l’oscuro Pequod, che è di Achab, ma non è Achab, perché il Pequod è il suo proprietario, il quacchero, il dimenticato Peleg, che l’aveva addobbato “come un barbaro imperatore etiopico… Era fatto di trofei. Un veliero cannibale, che si ornava delle ossa cesellate dei suoi nemici”.

Parafrasando le parole usate da uno scrittore per parlare di un altro scrittore, il nostro Capitano Peleg, risorto con un artificio, è un naufrago del passato che il Fato ha proiettato sulle sponde di un altro tempo. A cura di Frescobaldi MacIntyre.

 
 

LE BALENE DI AUDIERNE

 
 

Nell’estate del 1784 Robèrt Morvanou aveva undici anni. Non ho motivi per pensare che non fosse un ragazzo come molti altri della sua età, prossimo ad affrontare l’avventura della vita con poche certezze e alcune illusioni, entusiasta e impaurito.
La sua famiglia viveva a Nantes, dove suo padre Cristophe era il chirurgo più in vista dell’Hôtel-Dieu, e al cui successo professionale non aveva nuociuto il sottile confine che esiste tuttora tra un’operazione e un’estrema unzione.

”Cerca di diventare un gran medico. In alternativa, un vescovo” era solito dire il padre a Robèrt quando affrontava con lui discorsi sul suo futuro; perché certi genitori non si accontentano di dominare il presente dei propri figli, ma si sentono quasi in dovere di gravarli del loro passato, tutto, e di disegnarne l’avvenire.

La voce del mare e l’aspirazione naturale ad accrescere il proprio prestigio, avevano spinto il dottor Morvanou ad acquistare e ristrutturare una vecchia dimora marina nel Finistere, dove la famiglia prese a trascorrere l’intero mese di luglio di ogni anno.

Quell’estate, sulla spiaggia di Audierne Robèrt visse il giorno che più di altri sarebbe stato presente, passato e futuro.

A un centinaio metri dalla riva, vide il mare ribollire dei tuffi disordinati di un numero indefinito di pesci e focene che si inseguivano e sbattevano gli uni sugli altri in un carnevale feroce. Il vento rinforzava e cadeva, rinforzava e cadeva senza sosta e più lontano, nel cielo e sull’oceano, infuriava una tempesta, che una forza invisibile – ma di cui si intuiva chiaramente l’esistenza – teneva relegata a un miglio di distanza.

Poi si intese un mugghiare strano e terribile, un rombo a cui contribuivano il soffio singhiozzante del vento e il gemito irriferibile di una famiglia di balene frustata dalle onde che puntava senza esitazioni verso la riva.

Pochi minuti dopo, ce n’erano circa una dozzina adagiate sull’arenile, che annegavano piano nella sabbia.

Robèrt, con il fratello piccolo per mano e con sua madre dietro di loro che li abbracciava, mischiati alle donne e ai pescatori che accorrevano sempre più numerosi sulla spiaggia chiara, assisteva immobile e in attesa di qualcosa, che a torto credeva essere solo la morte di quelle creature straordinarie.

Perché sì, morirono una a una, ma due femmine prima di farlo partorirono sulla riva, emettendo tra le mandibole che si spalancavano e richiudevano lentamente dei lunghi sibili indecifrabili e spaventosi, che a Robèrt parvero urla laceranti.

Sognò per diverso tempo (a volte di proposito) le due balene che morivano mentre altre due nascevano e morivano anch’esse. Poi le chiuse da qualche parte e gettò la chiave.

Robèrt nel tentativo di seguire il consiglio di suo padre, divenne medico, ma imperdonabilmente senza ambizioni.

Si era sposato da due sole settimane, quando venne a sapere casualmente che il posto di medico condotto a Audierne era vacante. Accettò senza esitare.

Prese allora possesso della casa estiva paterna; era quasi in stato di abbandono, nessuno ci andava da dieci anni a quella parte, da quando il padre si era spento dopo una strana malattia che in pochi mesi lo aveva portato prima alla pazzia e poi a una morte violenta, cercata e trovata in mare.

Rimise in sesto la casa e affrontò la sua nuova vita come si fa con un destino scritto da una mano oscura.

Quando sua moglie restò incinta un anno dopo, preparò la nascita del figlio meticolosamente. Impedì a Francoise qualsiasi sforzo; trascurò il lavoro per dedicarsi solo a lei e al figlio che sarebbe arrivato.

Quando fu tempo, con l’aiuto dell’ultima erede della lunga generazione di levatrici del luogo, una quindicenne silenziosa dalle braccia forti e la carnagione lattea, aiutò sua moglie a partorire.

Jean nacque poco prima dell’alba.

Robèrt lo lasciò tra le braccia di sua madre per meno di un minuto.

Poi, delicatamente lo avvolse in un lenzuolo bianco, lo prese in braccio e lo portò fuori.

Ci mise un quarto d’ora a raggiungere la spiaggia di Audierne. E nello stesso punto in cui più di vent’anni prima si erano arenate le balene, mentre il sole sorgeva, entrò in acqua con il figlio in braccio.

Sentiva dietro di sé delle voci che lo chiamavano, ma non si voltò. Avanzò nella bassa marea sino a quando l’Atlantico non lo inghiottì completamente, con il bimbo stretto a sé.

Non escludo che sia stato quello il giorno in cui io, Jean Morvanau, ho imparato a nuotare.