IL VELIERO CANNIBALE 20 – Moby Dick Chapter 1

IL VELIERO CANNIBALE 20 -

Stephen Grimes storyboard for John Huston’s Moby Dick, 1956 (Parfitt Gallery)

 
 

Malinconie, anacronismi e moralismi del Capitano Peleg

 
 

Moby Dick è il libro che più si avvicina al Libro dei libri. In nessun altro si disputa intorno all’esistenza di Dio, o alle prove della sua inesistenza. In uno l’immensa Arca; nell’altro l’oscuro Pequod, che è di Achab, ma non è Achab, perché il Pequod è il suo proprietario, il quacchero, il dimenticato Peleg, che l’aveva addobbato “come un barbaro imperatore etiopico… Era fatto di trofei. Un veliero cannibale, che si ornava delle ossa cesellate dei suoi nemici”.

Parafrasando le parole usate da uno scrittore per parlare di un altro scrittore, il nostro Capitano Peleg, risorto con un artificio, è un naufrago del passato che il Fato ha proiettato sulle sponde di un altro tempo. A cura di Frescobaldi MacIntyre.

 
 

I Qualcosa, sull’orizzonte

 

Chiamatemi Ismaele.

Anni fa – non importa quanti di preciso – con quattro soldi in tasca e nulla che mi interessasse davvero a terra, pensai di prendere il largo e visitare la parte del mondo che è coperta dalle acque. È il mio metodo per scacciare la malinconia e rimettere il sangue in circolo. Ogni volta che mi accorgo che una smorfia mi sta incupendo il viso, che un novembre umido e piovigginoso cova nella mia anima, che mi ritrovo, senza volerlo, a sostare davanti a un’impresa di pompe funebri e a inseguire tutti i funerali in cui mi imbatto; e soprattutto ogni volta in cui il malumore prende così tanto il sopravvento che è solo il mio senso morale a impedirmi di scendere in strada giusto per attaccar briga con la gente – allora, capisco che è ormai tempo di prendere il mare. È questo il mio surrogato per la pistola e le pallottole. Con filosofia Catone si gettò sulla sua spada; io, semplicemente, salgo a bordo di una nave. Non c’è nulla di sorprendente in questo. Forse non se ne rendono conto, ma quasi tutti gli uomini, ciascuno secondo le proprie inclinazioni, una volta o l’altra, nutrono verso l’oceano gli stessi sentimenti che provo io.

Prendete adesso Manhattan, circondata da banchine come isole indiane da barriere coralline: i traffici la cingono con la loro spuma. A destra e a sinistra le strade vi conducono sul lungomare. Qui, al suo centro esatto, c’è Battery, un alto bastione lambito da onde e rinfrescato da brezze fino a qualche ora prima lontane da terra. Noterete una folla di persone intente a contemplare l’acqua.

Provate ad andarvene in giro per la città il sognante pomeriggio di un Sabato. Raggiungete Coenties Slip da Corlears Hook e di là, lungo Whitehall, dirigetevi a nord. Cosa vedete? Appostati come sentinelle silenziose, tutto intorno alla città, se ne stanno migliaia e migliaia di mortali, immobili, a fantasticare dell’oceano. Chi appoggiato a una palizzata, chi seduto sulle testate dei moli; altri lanciano lo sguardo oltre le murate delle navi arrivate dalla Cina; e altri su, in alto, tra le attrezzature, quasi a cercare una visuale ancor più ampia del mare.

Ma costoro non sono che uomini di terraferma; ingabbiati, nei giorni feriali, tra quattro mura, legati ai banchi, inchiodati alle sedie, avvinghiati alle scrivanie. Che succede, dunque? Forse non ci sono più campagne? Che ci fanno qui?

Guarda! Frotte di persone vanno dritte verso l’acqua, apparentemente per fare un tuffo. Che strano! Nulla li soddisfa, se non il limite estremo della terraferma; né gli basta gironzolare sottovento e all’ombra di quei magazzini laggiù. No davvero. Hanno bisogno di accostarsi all’acqua il più vicino possibile, fin quasi a caderci dentro. E a quel punto se ne stanno fermi – per miglia e miglia, per leghe. Tutta gente dell’entroterra che arriva da viottoli e vicoli, da strade e corsi, da nord, est, sud e ovest. Eppure è qui che si riuniscono. Ma secondo voi è forse la forza magnetica degli aghi delle bussole di tutte quelle navi che li attira quaggiù?

Ancora una cosa. Mettiamo che vi troviate in campagna, su un’altura lacustre. Qualsiasi sentiero decidiate di prendere, beh nove volte su dieci vi porterà in una valle e vi lascerà davanti a uno specchio d’acqua. C’è della magia in tutto questo. Prendete il più distratto degli uomini, immerso nelle sue più intime fantasticherie, mettetelo in piedi, in cammino, e lui infallibilmente vi condurrà all’acqua, se acqua c’è in quella regione. Sperimentatelo se doveste trovarvi assetati nel grande deserto Americano e alla vostra carovana fosse aggregato un professore un professore di metafisica. Infatti, come tutti ben sanno, il pensiero e l’acqua sono legati indissolubilmente.

Passiamo a un artista adesso. Vorrebbe dipingere per voi il più sognante, ombreggiato, sereno e romantico paesaggio della valle del Saco. Quale sarà l’elemento primario di cui si servirà? Ecco i suoi alberi, ciascuno dal tronco cavo come se dentro vi alloggiassero un eremita e un crocefisso; là riposa il suo prato, e lì il suo gregge; e lassù da quel casolare si innalza pigra una lingua di fumo. Dal profondo di lontane foreste un sentiero tortuoso si snoda verso l’alto, fino a speroni di montagne dai pendii immersi nell’azzurro. E benché la scena giaccia come in estasi, e il pino si scrolli via i suoi sospiri, come fossero aghi, sulla testa del pastore, tuttavia tutto si rivelerebbe inutile se il pastore non avesse gli occhi puntati sulla magica corrente davanti a lui. Provate a visitare le praterie in giugno, quando per decine e decine di miglia potete attraversare campi di gigli tigrati immersi fino alle ginocchia: quale sarà allora il vostro desiderio più grande? Acqua, perché in quei luoghi di acqua non ce n’è una goccia! Se Niagara non fosse altro che una cascata di sabbia, affrontereste mai un viaggio di migliaia di miglia per vederla? Perché quel povero poeta del Tennessee, subito dopo aver ricevuto due manciate d’argento, valutò se comprarsi un cappotto, di cui aveva un disperato bisogno, o investire quel denaro in un viaggio a piedi fino a Rockaway Beach? Perché, praticamente qualsiasi giovanotto forte e in salute, dall’animo altrettanto forte e sano, prima o poi impazzisce dalla voglia di andare per mare? Perché durante la vostra prima crociera da passeggero, quando per la prima volta vi hanno detto che da terra voi e la vostra nave non eravate più in vista, avete sentito come una misteriosa vibrazione? Per quale motivo gli antichi persiani consideravano il mare come qualcosa di sacro, mentre i Greci gli avevano assegnato una divinità a parte, addirittura il fratello di Giove? Certamente tutto questo ha un significato; un significato ancor più profondo di quello del mito di Narciso, che non riuscendo ad afferrare la tormentata e dolce immagine che vedeva riflessa nella fonte, finì per caderci dentro e annegare. Ma quella stessa immagine noi stessi la scorgiamo in ogni fiume, in ogni oceano. È l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita; la chiave di tutto.

Ora, quando pretendo di avere la tendenza a mettermi per mare ogni volta che la vista mi si annebbia e i polmoni iniziano a farsi sentire troppo, non significa che tutto questo abbia a che fare con il viaggiare per mare da passeggero. Per farlo da passeggero è assolutamente necessario avere con sé un portamonete, e un portamonete è solo uno straccio se dentro non c’è niente. Per di più, i passeggeri soffrono di mal di mare, diventano irritabili, non chiudono occhio per notti intere, generalmente non si divertono molto; no, io non parto mai da passeggero; e nonostante io sia un lupo di mare, nemmeno lo farei da commodoro o capitano o da cuoco. Lascio l’onore e il lustro di cotante cariche a coloro che vi ambiscono. Per quanto mi riguarda, detesto qualsiasi nobile e rispettabile incombenza, prova o tribolazione, di qualunque genere esse siano. È già tanto che io riesca a prendermi cura di me stesso, senza che debba preoccuparmi di navi, barche, brigantini, golette e chissà cos’altro. E quanto all’imbarcarsi da cuoco – pur riconoscendo che vi è un grande onore in questo, poiché a bordo il cuoco è una sorta di ufficiale – ebbene non mi è mai piaciuto grigliare polli; anche se una volta arrostito, imburrato a puntino e giudiziosamente condito, non c’è alcuno che parlerà più rispettosamente, per non dire con venerazione, di un pollo grigliato dal sottoscritto. È proprio a causa della pagana predilezione degli antichi Egizi per gli ibis grigliati e gli ippopotami arrosto, che si possono ammirare mummie di questi animali in quei loro immensi forni, le piramidi.

No, quando mi imbarco, io lo faccio da semplice marinaio, piantato davanti all’albero, installato nel castello di prora, o in alto sulla testa dell’alberetto. È vero, mi danno ordini di continuo, e mi fanno saltare da un albero all’altro come una cavalletta in un prato a maggio. E sulle prime la faccenda è abbastanza spiacevole. Ferisce una persona nella sua dignità, soprattutto se si appartiene a una di quelle famiglie storicamente residenti nella nazione, i Van Rensselaer o i Randolph o gli Hardicanute. E a maggior ragione se prima di infilare le mani nel secchio del catrame, si è spadroneggiato da maestro del paese, tenendo in soggezione i ragazzi più grandi. Il passaggio da maestro di scuola a marinaio, ve l’assicuro, richiede un potente distillato degli insegnamenti di Seneca e degli Stoici per poterci sorridere sopra e tollerarlo. Ma anche questo con il tempo svanisce.

Cosa importa se qualche vecchio miserabile di capitano mi ordina di andare a prendere una scopa e di strofinare il ponte in lungo e in largo? Che valore ha una tale umiliazione, che peso intendo, sulla bilancia del Nuovo Testamento? Credete che l’Arcangelo Gabriele mi abbia forse in minor considerazione, per il fatto che pronto e rispettoso, io obbedisca a quei vecchi miserabili? Chi non è uno schiavo? Ditemelo. Allora, per quanto un vecchio capitano possa darmi ordini, per quanto possa pestarmi e prendermi a pugni, io ho la soddisfazione di sapere che tutto questo è giusto; che tutti, nessuno escluso, in un modo o nell’altro, sono serviti alla stessa maniera, sia dal punto di vista fisico che da quello metafisico; e così il pestaggio universale è equamente distribuito e tutti dovrebbero strofinarsi la schiena l’un l’altro ed essere soddisfatti.

Ancora, io mi metto per mare sempre da marinaio perché sono obbligati a pagarmi per il mio lavoro, mentre ai passeggeri non danno neppure un penny per quanto ne sappia. Al contrario, sono gli stessi passeggeri a dover pagare. Ecco nel mondo dov’è tutta la differenza tra il pagare e l’essere pagato. L’atto del pagare è forse la pena più spiacevole che abbiamo ereditato dai due ladri del frutteto. Essere pagato: cosa può esserci di paragonabile? Il raffinato gesto con cui un uomo riceve il denaro è davvero meraviglioso, tenuto conto che siamo così sinceramente convinti che il denaro sia la radice di tutti i mali, e che in nessun caso un uomo ricco possa entrare in paradiso. Ah, con quanta allegrezza ci consegniamo alla perdizione!

Infine. Quando mi imbarco lo faccio sempre da marinaio per il sano esercizio e l’aria pura che ti aspettano sul castello di prora. Infatti, come i venti di prua sono di gran lunga più frequenti di quelli di poppa (è così, se viene rispettata la massima pitagorica), allo stesso modo il commodoro sul cassero il più delle volte riceve la sua aria di seconda mano dai marinai sul castello a prua. Si illude di respirarla per primo, ma non è così. Parimenti, sono le comunità a guidare i propri capi in molte altre cose, senza che costoro ne abbiano la minima idea. Ma per quale ragione, dopo aver respirato più e più volte il mare sui mercantili da marinaio, dovessi cacciarmi in testa di partire a caccia di balene, a questa domanda meglio di chiunque altro può rispondere lui, questo invisibile guardiano dei Fati, che perennemente mi sorveglia, furtivamente mi pedina e per vie incomprensibili mi condiziona. E non v’è dubbio che la mia partenza per questo viaggio faccia parte del gran disegno che la Provvidenza ha tracciato tanto tempo fa. Si è presentato simile a un breve interludio, un assolo, in mezzo a più lunghe esibizioni. Ritengo che quella parte del cartellone dovesse prevedere qualcosa di questo genere:

 
 

Grande competizione elettorale per la Presidenza degli Stati Uniti
CACCIA ALLA BALENA DI UN CERTO ISMAELE
SANGUINOSO COMBATTIMENTO IN AFGHANISTAN

 

Pur non potendo affermare con certezza perché quegli impresari, i Fati, abbiano voluto affidarmi questo ruolo di terz’ordine in questo viaggio a caccia di balene, quando altri sono stati scritturati per parti magnifiche in elevate tragedie, o parti esili e leggere in commedie raffinate, o parti divertenti in farse; e pur non potendo io spiegarne il motivo; cionondimeno, ora che richiamo alla mente tutto quello che è successo, penso di riuscire a intravedere le origini e i motivi che, essendomi stati presentati astutamente sotto i più svariati travestimenti, mi indussero a recitare la parte che recitai, per di più persuadendomi con l’illusione che quella scelta fosse il risultato del mio libero arbitrio e del mio sagace discernimento.

Ma la ragione principale è stata la travolgente idea della grande balena in carne e ossa. Fu lei, come un mostro sinistro e misterioso a destare tutta la mia curiosità. E fu così, allora, che i mari perigliosi e lontani dove lei faceva oscillare la sua mole simile a quella di un’isola; le indescrivibili e indicibili minacce della balena; queste cose, insieme alle migliaia di voci e di suoni patagonici che l’accompagnarono, mi fecero propendere verso quel desiderio. Con altri uomini, forse, fatti di quel genere non sarebbero stati convincenti; ma quanto a me, io sono sempre stato tormentato da una smania senza speranze per ciò che è remoto. Amo navigare per mari proibiti e approdare su coste selvagge. Sapendo bene che cosa è buono e cosa no, ho una percezione immediata dell’orrore, ma non per questo non voglio avervi a che fare, se mi è concesso, dal momento che è bene mantenere rapporti cordiali con gli abitanti di un luogo.

È per queste ragioni, dunque, che quel viaggio a caccia di balene fu il benvenuto; le grandi cataratte del mondo delle meraviglie si spalancarono e nell’immaginario senza freni che influenzò le mie scelte, a due a due fluttuavano nel profondo della mia anima interminabili processioni di balene, e in mezzo a loro un grande spettro incappucciato, come una collina di neve nell’aria.