Il senso della fine – Luca Pizzolitto

Il senso della fine – Luca Pizzolitto

© Fotografia – autoscatto dell’autore

 
 
 
 
È qui che si spezza e frantuma l’attesa,
è qui che si fa livido e incerto
anche l’incanto, il senso della fine.
 
Nel tornare della rondine a primavera,
nel desiderio dei miei occhi,
nella danza di un nuovo aprile.
 
Tutto ciò che vive soffre,
un grido di rabbia e d’amore.
 
 
 
 
 
 
La ragione della polvere
 
La ragione delle cose che accadono,
i desideri muti, i muti ritorni,
i nostri corpi rimasti ormai
solo carne e materia disfatta dei sogni.
 
L’aria fresca del mattino,
un fiume che scorre quasi in silenzio,
partire sapendo di non tornare,
e che quello sarà il suo ultimo sguardo su di te,
il profumo austero dell’autunno.
 
Nell’incedere senza tregua del tempo,
nella caducità di ogni amore che
ti ammala il cuore e poi svanisce,
nell’eterno allontanarsi delle cose,
sotto questo cielo stanco
dei nostri stupidi nomi.
 
 
 
 
 
 
Ho cercato il Tuo volto
nella sete e nel pianto,
nel dolore che non ha luogo,
nella tela spezzata di un finto amore.
 
Mi sono visto morire e poi
risorgere tra le Tue mani,
nella fede appassita sulle labbra,
nell’incerto tremore della sera.
 
 
(Luca Pizzolitto, La ragione della polvere, peQuod, 2020)
 
 

Da questi componimenti tratti da La ragione della polvere (peQuod, 2020) erompe una ricerca fideistica rigorosa in cui l’Autore delega alla scrittura poetica, come sede principale di confessioni e lacrime sottese tra atto spirituale e dramma vitale, il compito di interpretare quanto è incastonato nel mondo e di conoscerne, per scossoni e dissesti, i segni in cui converga la divinità.

In un gusto prettamente gnomico, il dettato di Pizzolitto raccoglie e fa tesoro dei moti animosi della corrente di pensiero profondamente esistenziale-fideistico nel suo interrogare e l’argomento naturale, e la trama della realtà, non lesinando per altro di dimostrare il mondo come la “polvere” che è, e la polvere in cui tornerà in quanto tale.

La posa globale della raccolta sembrerebbe intesa ad una ascesi – seppur tanto involontaria, quanto congenita al verso – concretata in una scrittura che più nuda della preghiera, e più intensa del kyrie eleison, riconosce la sofferenza del sé nella sofferenza universale, passando per la sofferenza del Salvatore.

Ed è nel dolore totale che si specchiano di primo acchito il verso, e (consequenzialmente) l’io poetante, e nell’afflizione che comporta il memento mori rassomigliando prima il volto della Passione, e squadrando poi la tematica più profondamente patita della messianicità – disattesa, peraltro, come si può dedurre alla seconda lettura.

Il predicato formale contenuto in Genesi 3, 19 (a cui l’autore dedica esplicitamente un ampio sorriso tanto nel titolo della raccolta, quanto nella poesia omonima) prevede l’ipotesi che dalla protasi – anche se impropriamente detta, trattandosi quanto più di una affermazione che di una ipotesi condizionale – “quia pulvis es”, si derivi la conseguenza per cui “et in pulverem reverteris”. [Traduzione: perché polvere tu sei, e in polvere tornerai]

Seguendo questa logica, dunque, è lecito (quanto più strettamente metodico) assumere che l’unica certezza a competere l’esistenza nella fede, e quindi il credente in ogni suo singolo aspetto, sia l’attesa disperante di ricongiungersi alla povertà della materia per trascendere nell’assoluto del mistero e, soprattutto, che allo scoccare dell’ultimo istante nulla sarà stato aiuto – come niente è stato di ausilio nei momenti antecedenti a quello più doloroso.

Per questo il Nostro, certo di non poter assistere al miracolo del ritorno nel suo verso, stana la vera ragione della polvere in cui è indovinata la più concreta necessità dell’essere umano.

Soprattutto perché “cercare […] il volto” non comporta di trovarlo, o di averlo trovato; seppur per questa ricerca, e per le sole mani del Nazareno, passi la redenzione di tutta la vita, e di tutte le vite.

In questo, realizzando la Creatura (e tutto il creato, forse, con essa) come bisognosa più che mai di salvezza, Pizzolitto si dimostra ben consapevole che la tenerezza di cui è bisognoso l’uomo non potrà risolvere né la disarmonia dell’antropogene con la physis che lo accoglie, né la completa miseria che verga la pagina di ogni esistente ed il suo tempo – nonostante le lacrime, nonostante il “grido di rabbia ed amore”, nonostante la resurrezione “nella fede appassita sulle labbra”.

Carlo Ragliani