Il letto vuoto – Alberto Bertoni


Il letto vuoto, Alberto Bertoni (Nino Aragno Editore, 2012)

La poesia di Alberto Bertoni è attraversata da alcune tematiche ricorrenti, le stesse che troviamo a partire da Il letto vuoto (Nino Aragno Editore, 2012). È il vuoto dopo il crollo a fare da sfondo alle poesie di questa raccolta. È questo «letto vuoto», forse una scena post-mortem, di inaspettata crudeltà (e crudezza). Invasi da questa percezione di assenza sono le figure della madre e del padre, lo spazio intimo della casa e lo stesso soggetto scrivente. Invaso dalla tragedia è tutto ciò che nella vita dovrebbe invece essere fonte di sicurezza e senso di stabilità: i genitori, la casa in quanto rifugio, la propria persona, anima insieme al corpo.

Le poesie sono intervallate da testi di prosa poetica, rendendo così Il letto vuoto un prosimetro. Le sezioni ufficiali all’interno della raccolta sono tre: Bestie, Stelle variabili e Brecht, ma le brevi narrazioni intromesse da Bertoni fungono quasi anch’esse da boe per segnalare un cambio di rotta tematico. Dopo il testo Il 7 luglio, che narra di un pranzo faticoso (fisicamente, a causa del caldo estivo, ed emotivamente, a causa della malattia, protagonista del racconto), troviamo a seguire una serie di poesie dedicate proprio al rapporto con una madre e con la sua faticosa malattia. Siamo spettatori della lotta del poeta contro la dimenticanza, il mutismo, lo smarrimento fisico ma soprattutto esistenziale. Due poesie essenziali di questa “sezione” sono Madrigale del deserto e Sul referto.

Gli animali della sezione Bestie, la prima di questo libro, si intrecciano con la quotidianità fatta di morte, malattia ed incertezza. Emergono la presenza di un piccione «riverso / sul marciapiede sotto / così atletico, elegante, muscoloso / di fianco al cassonetto» e di un topo «schiacciato sotto casa / il sangue a mezzogiorno ancora vivo / nella domenica di sole».

Il topo dell’ultima poesia citata personifica la ragione di una fuga, della scelta tattica di percorrere una via più lunga per raggiungere un punto finale. La strada fatta in più serve, lo scrive il poeta, per riflettere e digerire quella morte. Per non guardarla negli occhi fino a che il corpo morto del topo non sarà più visibile. Allora poterne guardare la cenere, o il punto vuoto sull’asfalto.

Immediatamente, sin dal titolo della seconda sezione della raccolta, Stelle variabili, Alberto Bertoni intende omaggiare il poeta lombardo Vittorio Sereni; quest’ultimo riecheggia nei versi del modenese, il quale, a sua volta, inaugura la sezione mostrando una Modena simile a «un’isola / sul Rio delle Amazzoni», annegata a causa del fiume Secchia. Il poeta parla di un «ricircolo di vita / dove qualcuno rimuore», mostrando anche qui – come nelle altre cinque poesie di Stelle variabili – la forte presenza dell’ossessività, come già in Sereni, per il tema della morte e della distruzione. Altro grande tema sereniano, presente in maniera lampante nella poesia La spiaggia, è lo smarrimento. Ci dà questo senso la terza poesia della sezione. La quarta poesia riprende il tema della morte, riportando una scena di cui non fatichiamo ad immaginare i tratti descritti. Ad accompagnare la scena iniziale di un «martin pescatore [che] becchetta / le cervella dell’uomo non sepolto» troviamo altri diversi uccelli; tutti che sorvolano la superficie dell’acqua, probabilmente in cerca di una via di fuga, e questo ci riporta ad un senso di tensione.

L’ultima poesia è una traduzione: si tratta di un frammento tratto da The Lesson di Philip Levine. Perché Bertoni decide di inserire queste parole, e perché proprio alla fine di questa seconda sezione? All’apice della disperazione umana, leggiamo della lezione di Levine contenuta nelle mani del dottore, protagonista della poesia, e nelle sue parole così descritte: «grasse di risate, sommesse, / incomprensibili, parole che erano / puro suono privo di senso, proprio come / le parole devono essere». In questa poesia è presente quella stessa disperazione rassegnata di Sereni, il quale anche indica le parole come mezzo incerto e come forza disarmata. Ne La spiaggia Vittorio Sereni alla fine scrive che i morti «parleranno», ma all’inizio fa parlare la voce dentro il ricevitore che dichiara: «sono andati via tutti […] / non torneranno più». Quanto peso ha, dunque, la parola di qualcuno che non tornerà più? Lo stesso peso, probabilmente, delle parole di cui ci parla Levine che, come scrive, sono «parole che erano / puro suono privo di senso».

Terza e ultima sezione: Brecht. Non a caso, questa sezione piena di riferimenti al movimento, al viaggio fantasioso e concreto, è anticipata da una prosa dedicata ai treni. Leggiamo della difficoltà dell’autore che, scampato per una miracolosa premonizione, si salva dal tragico attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Con il tarlo, così definito da Bertoni, delle destinazioni di Fossoli ed Auschwitz, il viaggio comincia ad essere visto come un angoscioso partire senza però tornare. Al campo di prigionia di Fossoli è dedicata la prima poesia della sezione. Davanti alla fragilità naturale delle fattezze dei luoghi, l’autore non prova fatica né dolore. Ma quando la corazza (forse una corazza artificiale?) che circonda la materia si infrange, e viene distrutta da una forza estranea, è allora si prova un senso di reale smarrimento. È il «niente indifeso» dei prigionieri sul treno per Fossoli a fare da eco a tutta la poesia.

Il viaggio descritto nella terza poesia porta alla strada Chausseestraße, a Berlino, dove al numero 126 si trova il cimitero con ospitata la tomba di Friedrich Hegel. Il percorso per arrivarci, come ce lo descrive Bertoni, è alquanto complesso. Tra zig-zag, impronte di topi sul percorso e vortici di foglie, la poesia si conclude con la consapevolezza di essere «circondato dai morti», e con la visione della tomba del filosofo tedesco.

La quarta poesia è dedicata a Bertolt Brecht, dedicatario dell’intera sezione. Il viaggio qui descritto ha l’aria di essere a tratti reale, come se Bertoni si fosse davvero trovato nella stanza di Brecht; a tratti sembra quasi un sogno onirico, un desiderio di dialogo. La veridicità dell’incontro si può ravvisare dalla descrizione dettagliata della stanza del poeta: «accedo / alla sua stanza di lavoro / coi tre tavoli, il parquet di legno». Alla fine della poesia siamo trasportati come alla fine di un sogno, o meglio alla fine di un viaggio nel tempo: «Quando sono tornato / i miei capelli erano d’argento / e non sono contento».

L’eco di Auschwitz torna nell’opera di Bertoni, in particolare nel saggio Una questione finale: poesia e pensiero da Auschwitz, dove egli scrive che «Auschwitz deve venire interpretata, da una parte, come uno specifico fatto storico, già ampiamente indagato […]; ma, dall’altra parte, è anche una cesura/ferita così profonda nel tempo […] da aver provocato insieme una svolta e una frattura d’ordine prima antropologico che storico entro la coscienza occidentale, i cui effetti stanno ancora manifestandosi davanti ai nostri occhi». In sostanza, nel suo epilogo, Il letto vuoto evidenzia come questa cesura sia stata assimilata nell’esperienza poetica di Bertoni.

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Diverse tematiche del Letto vuoto le ritroviamo nell’ultima raccolta di Alberto Bertoni, dal titolo bukowskiano Culo di tua mamma (Samuele Editore – Pordenonelegge, Collana Gialla Oro, 2022), che per definizione dell’autore stesso è la traduzione letterale dell’«americano your Mother’s Ass, nome di cavallo inventato per liberarsi di un seccatore dall’io narrante della poesia Horse fly, composta da Bukowski nel febbraio del 1985».

Nel secondo componimento di quest’antologia – intitolato El condor pasa e dedicato a Stefano Tassinari –, il poeta ci porta ad osservare da vicino la tensione tipica di chi rimane sospeso tra un piano e l’altro, bloccato in ascensore: un viaggio nei ricordi, descritti uno ad uno come fossero parti di un film con andamento scorrevole. Cosa intende poi dire Bertoni quando scrive «E va bene la vacanza, questo / alleggerirsi necessario dei pensieri»? Nel momento in cui ci si trova nel pieno di un imprevisto del genere, del quale è incerta la durata, la mente comincia a vagare come forse non faceva da tempo. È questa la vacanza di cui parla il poeta.

Ritornano gli echi tra i due grandissimi della poesia precedente di Bertoni: la presenza dei genitori e degli animali. Ad unirli: il ricordo e la morte. Due componimenti in questo senso emblematici sono Mio padre e il lupo e Un tarlo di Alzheimer. Nella prima, così come nella seconda poesia, è presente una scena di decomposizione, di già morte, descritta per mezzo di immagini a tratti disturbanti. In Mio padre e il lupo il poeta invita un cane, le formiche e qualche volatile a nutrirsi del corpo del padre. A leggere con maggiore attenzione questi versi di enorme crudezza, l’invito del poeta può tuttavia risultare meno macabro di come appare a una prima lettura, ma più complesso e malinconico: l’azione di divorare parti del corpo, di stuzzicarle, potrebbe tradire invece un desiderio di distrazione dal dolore da parte del padre? Non siamo, forse, davanti a un mero «provare dolore» bensì di fronte un concentrarsi altrove della mente.

Nel secondo componimento che – lo si nota già dal titolo – è dedicato alla malattia del padre, Bertoni immette come termine di paragone con la mente del padre colpita dall’Alzheimer una mela, che piano piano marcisce. Colpisce la scena descritta nella seconda strofa: delle dita, forse le stesse del poeta, accarezzano la superficie malata del frutto. Un contatto stretto, questo, con l’essenza della malattia, vista da vicino e ritratta da Bertoni sempre con estrema cura di dettagli.

Caterina Golia

 
 
 
 
La zattera dei folli
 
Fuggo nella libertà
di un the al limone fuori stagione
e nell’eccelso
del velo di zucchero sparso
all’angolo destro della bocca
contratta nello spasmo
che ingoia tutto il molo d’asfalto,
la chimera, la piaga, lo slancio
dove salpa la zattera che porta
la demenza di mia madre e di mio padre
 
Mare senza luce
 
 
 
 
 
 
Un sosia
 
Forse sono io quell’uomo
rannicchiato in un’auto uguale
che scruta il mio stesso giornale
di programmi e risultati
senza un ricordo di cui essere geloso
lo scatto di trotto sbilenco
 
questo cuore a riposo
 
 
 
 
 
 
Da Bestie
 
IV
 
Anche la pioggia è incerta
sul davanzale che mio padre
ha cosparso di briciole
per l’esofago aguzzo dei passeri
il collare azzurro delle tortore
nonostante i vermetti e le larve
custoditi nel becco
 
Come è stato campione
il piccione riverso
sul marciapiede sotto
così atletico, elegante, muscoloso
di fianco al cassonetto