Il demone mediatore in Plutarco e Apuleio


 

La nostra cultura ci porta ad associare alla parola demone un significato estremamente negativo. Eppure il termine greco daimon – da cui il latino daemon – non possiede necessariamente tale accezione. Per molti autori dell’antichità greco-romana, infatti, il daimon è un’entità che, collocandosi a metà tra il divino e l’umano, funge da intermediaria tra i due livelli, identificandosi talvolta con uno spirito guida, tutelare, custode. Pilastro di tale concezione è un noto passo del Simposio di Platone, in cui Socrate, riportando la sua conversazione con Diotima, una sacerdotessa di Mantinea, stabilisce che Eros è un grande demone e che il demonico nel suo complesso è intermedio tra il divino e il mortale. Il demone, prosegue la sacerdotessa, è interprete e messaggero degli uomini agli dei e degli dei agli uomini; trasmette le preghiere e i sacrifici degli uomini e i comandi e i contraccambi degli dei. Per suo tramite si svolgono tutta la mantica, l’arte sacerdotale, i sacrifici, le iniziazioni, gli incantesimi e ogni genere di profezia e magia. Questi demoni sono molti e svariati, e uno di essi è Eros, l’Amore (cfr. Plat., symp. 202 e-203 a). Sulla base di questo imprescindibile antecedente, prenderò sommariamente in esame l’immagine del daimon in due autori di età imperiale, l’uno di ambito greco, l’altro latino: Plutarco e Apuleio.

Plutarco di Cheronea fu un poliedrico scrittore vissuto tra il 50 e il 120 d.c. Nella sua opera Il tramonto degli oracoli il declino dei centri oracolari è attribuito alla scomparsa dei demoni ad essi preposti: se queste entità vengono messe al bando o emigrano altrove, gli oracoli perdono la loro virtù; con la ricomparsa di quelle, essi riacquistano voce, come strumenti suonati da musicisti. In particolare, il racconto del barbaro del Mar Rosso riconduce la virtù oracolare ai demoni. Lo straniero, che trascorre la maggior parte del tempo in compagnia di ninfe erranti e demoni, ed è più oltre definito egli stesso un demone, è ispirato all’arte mantica un giorno all’anno, quando profetizza sulla riva del mare (cfr. Plut., def. 418 d-421 a). Analogamente, in Il volto della luna Plutarco allude ai daimones che assistono e servono Crono nell’isola dove è imprigionato. Essi sarebbero dotati di capacità profetiche, in grado di trarre innumerevoli vaticini.

Altro scritto significativo a riguardo è il De Iside et Osiride, trattato in cui il mito egiziano di Iside e Osiride viene sottoposto ad una complessa interpretazione allegorica che prende le mosse dal racconto platonico della nascita di Eros da Poros e Penia, connessi in questa sede ai principi dell’intellegibile, della materia e del cosmo. Lo scrittore di Cheronea riprende inoltre la teoria del demone mediatore in chiave etica, con una peculiare impronta di manicheismo di stampo orientale: delle due anime del mondo, l’una produce il bene, l’altra, antagonista, è artefice di tutto ciò che è contrario. Una terza è intermedia, non priva di anima, di ragione, di moto spontaneo, ma dipende da entrambe, e aspira perennemente all’anima migliore, che desidera e persegue. Si richiama così il parere di quei sapienti secondo cui il principio migliore deve chiamarsi dio, l’altro demone; il mago Zoroastro chiamava l’uno Horomazes, l’altro Arimanios, facendo somigliare l’uno alla luce, l’altro alle tenebre e all’ignoranza, e tra i due collocava Mitra, il mediatore (cfr. Plut., Is. 369 d-f). Traspare qui una delle maschere di Eros, demone mediano fra il brutto e il bello, la sapienza e l’ignoranza, sempre tendente verso la polarità positiva, di cui incarna l’insopprimibile mancanza. La medietà strutturale e morale sembra pertanto supportata da una apertura a sistemi di pensiero allotri, senza che venga meno l’ancoraggio alla tradizione greca.

Apuleio di Madaura fu un prolifico autore della seconda metà del II secolo d.c. Retore e filosofo, si nutrì dell’eclettica temperie culturale dei suoi tempi. Nell’opera Il demone di Socrate Apuleio effettua una esaustiva analisi del demonico; questo scritto, che può considerarsi una diatriba, cioè un discorso volto ad illustrare concetti filosofici e religiosi con una esortazione morale conclusiva, si richiama per lo più ad un patrimonio di credenze precostituito. Come altri autori di questo periodo, anche Apuleio avverte il bisogno di rifarsi all’auctoritas di Platone. Così la sua trattazione demonologica inizia con la suddivisione platonica degli esseri animati (animalia) in tre parti: somma, media, infima. Gli dei immortali, cioè gli astri, seguiti dalle dodici divinità della mitologia, si trovano in cielo (cfr. Apul., deo Socr. I 1-3; II 3). Gli uomini si trovano invece relegati in questo inferno della terra (in haec terrae tartara relegantur), privi di ogni comunicazione immediata con le sedi celesti. Tuttavia, prosegue l’autore, Platone non ha rimosso gli dei dalla cura delle cose umane, bensì soltanto dal contatto con esse; per questo esistono divinae mediae potestates dell’aria, chiamate dai Greci demoni, che fungono da interpreti e messaggeri portatori di salvezza. Per mezzo di esse si realizzano gli annunci profetici, i prodigi dei maghi e ogni sorta di presagi; questi esseri plasmano le visioni dei sogni, separano le viscere delle vittime, governano gli uccelli destinati al volo augurale e istruiscono quelli che predicono il futuro con il canto; amministrano tutto ciò che consente di conoscere l’avvenire. Nello svolgimento di questi loro uffici i demoni si sottomettono all’obbedienza, al volere e all’autorità dei celesti (cfr. Id., Ibid., VI 1-VII 1).

Un’altra autorità cui lo scrittore di Madaura espressamente si richiama è Aristotele, quando puntualizza che ciascun elemento ha i suoi animalia. Anche l’aria, che arriva fino alla luna, deve avere pertanto i suoi abitatori. Noi dobbiamo quindi, in rapporto alla posizione mediana del luogo, concepire una natura intermedia, in modo che il carattere degli abitanti sia conforme a quello della regione. I corpi di queste entità mediane, i demoni, devono avere un certo peso, perché non salgano verso le regioni superiori, e, nel contempo, una certa leggerezza, perché non precipitino nelle regioni inferiori; essi presentano un’affinità con la sostanza aerea e rarefatta che compone le nubi (cfr. Id., Ibid., VIII 1-2; IX 1-X 1). I demoni hanno in comune con gli dei l’immortalità e con gli uomini la natura passionale: conoscono quei turbamenti e quelle tempeste che sono estranei alla natura dei celesti; vengono incitati dall’ira, piegati dalla compassione, attratti dai doni, mitigati dalle preghiere, esasperati dagli insulti e blanditi dagli onori (cfr. Id., Ibid., XIII 1-2).

Le riflessioni di Plutarco e di Apuleio intorno al daimon testimoniano come gli antichi fossero inclini ad elaborare rappresentazioni organiche e strutturate: gli esseri intermedi colmano la distanza, fisica e simbolica, che separa il divino dall’umano. Che tali figure continuino ad ispirare narrazioni ed immagini in età contemporanea (ricordo solo il celebre Il codice dell’anima di Hillman) è prova di quanto restino tuttora vive e dense di significati.