Il bene morale, Maria Grazia Calandrone (Crocetti Editore 2018).
Ho conosciuto i versi di Maria Grazia Calandrone qualche anno fa sulla rivista Poesia di Crocetti e sono rimasto subito affascinato dall’energia vitale che tracimava dalle sue parole. Oltre che dalle doti di scrittrice, sono rimasto colpito anche dall’intensa attività di promotrice della parola poetica e ancora di più dalla capacità di farsi corpo e voce della poesia, sua e degli altri (in tal proposito, ascoltatevi l’eccellente alfabetiere che ha curato per Radio Tre). Non credo sia un caso che Il bene morale (Crocetti, 2018) indaghi proprio i rapporti con l’altro, “la responsabilità dei nostri sentimenti, l’attenzione che dobbiamo al bene che proviamo e facciamo” come afferma l’autrice stessa parlando del libro nell’intervista che le ho fatto per laboratoripoesia.it. Un libro denso e importante – oltre 180 pagine – che si apre raccontando un semplice esercizio di libertà, un’esortazione ad abbandonarci alla bellezza delle cose e della natura per diventare cielo e disperdersi nel mondo. Si prosegue poi attraverso una serie di sezioni in cui l’autrice ci invita ad aprire lo sguardo, ritornare ad uno stadio primigenio e spogliarsi delle sovrastrutture per ricongiungersi con la nostra parte animale e ricucire il dialogo con la natura, gli alberi, i frutti del mondo. Un poeta è profondamente coinvolto con le cose del mondo. Il suo compito è mantenere la memoria della comunità umana afferma Maria Grazia Calandrone in una sorta di introduzione alla sezione Vittime e si fa voce dei testimoni della Shoah, dei sopravvissuti al disastro dell’Acciaieria Thyssen Krupp, di un albero di Fukushima, di Marilyn Monroe. Documento e poesia si fondono e sottolineano ancora di più il legame indissolubile tra Storia e poesia, il loro procedere intrecciate. C’è amarezza verso il genere umano in questi testi, la specie che resta non si evolve, la catastrofe non segna la memoria: il disastro del Vajont diventa emblema della noncuranza umana. Ecco che il bene morale, la cura dell’altro, di ciò che è e di ciò che prova, sembra venir meno, ma l’autrice ci esorta ad attraversare il disastro ad aver cura delle macerie, ricostruire.
ora dammi la mano, attraversiamo insieme questo disastro.
impara a tenere alta la tua bellezza
sopra l’acqua infetta, sopra questa evidenza
tremenda. inventerei
una trama diversa alla tua vita. ma questo è quanto abbia-
mo. dunque impariamo
a essere grati, ognuno
per il suo bene. io
del mio
tanto, figlia, ché sei rimasta
Nella sezione Le Cose Vive il libro raggiunge a mio avviso il suo apice. La poesia di Maria Grazia Calandrone ha sempre posto l’attenzione su un concetto poco frequentato dai poeti: la gioia. Lo stupore che si prova di fronte alla bellezza e come questo sentimento possa scaturire in modi impensati, improvvisi. In apertura alla sezione l’autrice ci invita ad un ottuso atto di fiducia nella bellezza, a tornare all’origine, al candore della scoperta consapevoli della propria carne e della propria mortalità. Uno stato di idiozia che ha coscienza della propria fine e dello splendore della bellezza che sulla fine si accampa. E che celebra il corpo in tutti i suoi elementi, un’anatomia amorosa che, utilizzando anche termini strettamente tecnici, esalta la perfezione della macchina responsabile che è l’essere umano.
amare
questo vivido essere impermeabile. avere cura
della sua meraviglia e della sua ferocia. non esiste che que-
sto sulla terra.
La poesia di Maria Grazia Calandrone è dunque un canto della bellezza e per la bellezza. Per riconoscerla e preservarla, averne cura. Ma è anche un canto di compassione, parola-ossessione dell’autrice, da leggersi non come pietà bensì come capacità di sentire insieme, accordare voce con voce. Il canto si spande per le vie di Roma, città-mondo polimorfa, creatura vivente che risplende sotto il sole. E si frantuma tra uomini e gabbiani, tra i colpi dei battilamiera e la folla sull’autobus che sembrava ubbidisse a un comandamento di gioia. Con la sua voce poetica intensa e lucida, Maria Grazia Calandrone ci invita a ritrovare il seme dello stupore piantato dentro di noi. E a osservare il mondo e gli uomini con la fiducia che hanno i bambini, custodi gioiosi di uno sguardo poetico puro, irraggiungibile.
Michele Paoletti
un semplice esercizio di libertà
una a una le antere dei fiori
dicono sì
nelle giornate dolci di settembre
guarda, il mondo è perfetto,
non avremmo saputo farlo meglio
guarda le cose
con dolcezza
e con dolcezza tu verrai guardato
dalle cose:
con la tua anima
imita le cose
tu, che sei mondo, guarda
i fiori
come se fossi un fiore
e poi guarda
le api
come se fossi un’ape
poi guarda i fiori
con gli occhi
dell’ape
e vedi rosse, gialle, azzurre, bianche
tazze di nutrimento
fatte per te
bevi,
diventa forte
allora guardi
in alto
la radiazione azzurra
e sei cielo
sei la dolce giornata di settembre
che durerà per sempre
20 settembre 2014
come giacinti nella viva luce di aprile
entravi nella sera con fasci di asparagi e fragole
lucide dentro il cestello della bicicletta
e un odore di carta di pane
che inumidiva al vespro, e di ginocchi
raschiati contro il ruvido dei muri
arsi da quella inerme esposizione
a un’intera giornata di aprile
e adesso, nel rosaceo stupendo della sera, ora che i muri
esalano un calore umano
tra le tenere fruste dell’erba, e un sentore di viole
spande il suo irrazionale
alito tra gli sguardi, rivivi nel rettangolo di cielo e marmo
della soglia, fermo nel dolce male della tua grazia
Roma, 4 marzo 2013
come sono operose le creature,
con che attenzione passano i pennelli
sulle assi di legno
eppure sanno di dover morire
ma ora
fanno
e facendo
dimenticano
e sono dèi davvero, veramente immortali, in questa svolta di
sole sulla prima verdissima erba di aprile
questi quattro ragazzi col pennello e l’odore di fresco e di
vernice,
la birra nella tasca dei calzoni, il berretto a sghimbescio e il
sorriso che dice io sono vivo, io in questo momento
sono vivo per sempre
Roma, 4 aprile 2016
Anna, tutto quel senso
Com’era fresco il mondo che portava
sulla bocca al mattino, ancora verde
d’erba sognata, come la innamorava
quella piccola mela che oscillava
come un rosso pianeta
sul melo nano dietro la finestra, che corona
di foglie misurate una per una le metteva
sulla chiara fontana dei capelli
l’ombra grande del pesco e come tutta
l’acqua giallo-ginestra
che era stata spalmata
dal sole nel mattino della sua nascita
sulle pareti della casa
era un annuncio della tua larghezza, Anna tutto quel senso
è stato
fatto sulla misura del tuo cuore.
Roma, 10 novembre 2011
Roma, all’improvviso, notte
buio improvviso. il sole
splende sui tetti e non al suolo. il giorno
si capovolge come uno scarabeo
d’oro. sfolgora il metallo delle gru,
i meccanismi e i giunti unti di sole
colano pioggia d’oro.
una grandine chimica, innaturale, incrina
il contratto sociale del cielo
con gli uomini. i palazzi di Roma popolare, della mia bella Roma
contro il sereno: un paradiso caduto
sotto la fiamma liquida del cielo. il cielo butta
da una piaga sulfurea
un rovescio squillante di gabbiani: un luccichio scontento
di ali fatte per capire il mare
batte
pochi metri più in alto
del suolo, quasi che le nuvole si siano chinate
a calare uno sconforto solo terrestre e l’azzurro ne resti tutto
indifferente, scosceso di luce
nel gelo imperscrutabile del padre
Roma, 5 dicembre 2012, ore 16.20
Canzone
Canto perché ritorni
quando canto
canto perché attraversi tutti i giorni
miglia di solitudine
per asciugarmi il pianto.
Ma ho vergogna di chiederti tanto
e smetto il canto.
Canto e sono leggero
come un fiore di tiglio
canto e siedo davvero
dove mi meraviglio:
all’inizio del mondo
c’è l’ombra bianca delle prime rose
che non sono più amare
perché canto e ti vedo tornare
come tornano a riva le cose:
senza passato,
con il petto lavato
dal mare.
Ecco!,
sali le scale come un ragazzino
che scrolla dalle ciglia una corona di sale,
dà due beccate d’indice
alla porta, s’inginocchia
in fretta, in fretta
dice: “Vieni!,
ti porto al mare” e mi sorride, dalla sua statura
di nevischio e di rose, dalla sua garza d’anima salvata
dalle piccole cose.
Dalla sua bocca bianca ride il mondo
e ridono le cose
trasparenti del cielo
se, girandosi appena
per pudore, dice: “Lo vedi, non ho più paura”
come parlando a un’ombra evaporata
nell’innocenza
calma delle ginestre, a un fiatare di rose
andato via per le finestre
aperte
fino alle fondamenta.
Così mi lasci nell’aperto privo
di peso. E allora canto
lo stare seduti
nel vivo, tutto l’amore privo,
che non smetta
la presenza perfetta
di chi non pesa
ma è senza volontà, senza maceria, senza l’avvenimento
della materia
è solo polvere che tende alla luce.
Roma, 30 settembre 2010