È possibile studiare l’ampio e sfaccettato fenomeno degli stati alterati di coscienza nella Grecia antica a partire dalle ricorrenze di vocaboli come bákchos, bakcheúein, éntheos, enthousiasmós; terminologia, questa, connessa in numerosi casi (ma, come vedremo, non sempre) al dio Dioniso, il quale verrà conosciuto per l’appunto presso i Romani come Bacco. In questo breve scritto circoscriverò la disamina ad alcuni dati letterari, toccando solo marginalmente l’ambito storico-religioso, meritevole di approfondimenti in altre sedi.
Portando l’attenzione al lessico tragico, Sofocle nell’Edipo re fa di Dionisos esplicitamente bákchos nell’invocazione del coro al «dio dalla mitra d’oro, eponimo di questa terra, bákchos dal volto di vino, compagno di tiaso delle Menadi» (vv. 209-212). Proprio le Menadi, sue seguaci, sono dette bákchai nel prologo delle Eumenidi di Eschilo. Vale la pena ricordare, a riguardo, il coro delle Baccanti (v. 75 e ss.): «Beato chi, felice del favore divino, conosce i misteri e conduce una vita pura, celebra il tiaso nell’anima, baccheggia sui monti purificandosi con i santi riti». Il bakcheúein (verbo al modo infinito, traducibile come “folleggiare, essere colto da furore bacchico, baccheggiare”) in questi versi si configura come una condizione innanzitutto interiore, in grado di assicurare la beatitudine, e come un’esperienza rituale che trasforma nel profondo l’identità di chi la vive; lo stesso Euripide, in un frammento dei Cretesi, afferma che il bákchos ha trasformato se stesso purificando e santificando la propria vita (Eurip., TGF 437). In un passo di una delle perdute tragedie dionisiache di Eschilo, Edoni, si descrive una casa letteralmente travolta dall’entusiasmo, il cui tetto baccheggia; quindi il bakcheúein corrisponde ad uno stato che si oggettivizza e si dilata, trasponendosi negli esseri inanimati. Ancora, nella tragedia eschilea Sette contro Tebe è il guerriero Ippomedonte a baccheggiare, posseduto (éntheos) da Ares: «si agita per il desiderio di provarsi in battaglia». In questo caso il termine rimanda ad una generica possessione divina, non imputabile a Dioniso; quella particolare condizione, ampiamente studiata dagli antropologi, in cui l’individuo viene sopraffatto da una potenza estranea e si trova a incarnare il suo possessore in una vera e propria azione teatrale, secondo una efficace espressione di Ernesto De Martino.
Ecco allora che anche il vocabolo enthousiasmós – che significa per l’appunto, letteralmente, avere un dio in sé – entra nello specifico campo semantico degli stati alterati di coscienza. L’anonimo autore del De morbo sacro, inserito nel Corpus Hippocraticum, tira in ballo divinità tradizionali quali Apollo Nomios, Ares, Ecate, a proposito di coloro che, affetti da disturbi di circolazione ematica dell’encefalo, si rivolgono a guaritori ciarlatani, portati ad attribuire ogni sintomo ad una presunta possessione. Se, per esempio, il malato emette grida acute e ben intonate, tanto da essere paragonato a un cavallo, verrà chiamato in causa Poseidone, al cui culto l’animale è connesso.
Il De morbo sacro è molto interessante, in quanto mostra il notevole interesse da parte degli ambienti scientifici per il fenomeno degli stati alterati di coscienza e attesta che questi ultimi, nel pensiero comune, erano messi in rapporto con le divinità più svariate.
Dell’ “indiamento” come esperienza di possessione nell’accezione più profonda riferisce Platone nel Fedro (253a), modalità in cui è possibile per l’umano prendere parte al divino. In un’altra opera platonica, lo Ione, si descrivono gli effetti del Coribantismo, rituale purificatorio per possessione che coinvolge la comunità dei Coribanti, con un ruolo centrale giocato dalla melodia (Ion. 530b). Nel medesimo passo si ricorda il carattere epifanico del processo di “indiamento”: per impadronirsi del sacro involucro, l’entità sovrumana deve innanzitutto apparire. Nella tragedia, non a caso, vi è una certa enfasi sulla manifestazione del divino: «Appari» è l’invocazione delle donne a Dioniso, tanto nell’Antigone di Sofocle (v. 1144) quanto delle Baccanti euripidee (v. 1017).
Una categoria a parte è costituita da quei personaggi storici (il generale Lisandro, i filosofi Empedocle, Sofocle e Platone) o mitici (Eracle, Bellerofonte, Aiace, le Sibille) di cui ci parla Aristotele: si tratterebbe di individui fisiologicamente diversi, caratterizzati da una natura malinconica dovuta alla bile nera che recano dentro di sé. Strutturalmente simile al vino nero, la bile nera renderebbe chi la possiede perennemente dionisiaco, giustificandone così la natura di éntheos (Arist., Probl. XXX 954a 34-38). È chiaro che non si tratta, in questo caso, di una condizione acquisibile attraverso una trance, bensì di una natura divina, propria di chi nasconde il dio nella secrezione umorale del proprio corpo.
I termini bákchos e éntheos rinviano pertanto ad una sorta di “statuto speciale” (connaturato o meno), da intendersi come compartecipazione ad una conoscenza che trascende i limiti dell’umano; condizione spesso di margine, specchio dell’atavico desiderio di ritrovarsi nel trascendimento di sé, riflessione di una elevazione che si realizza nei meandri più reconditi dell’universo interiore.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
AA. VV., Dionysos: mito e mistero, Atti del convegno internazionale di Comacchio (1989), Ferrara 1991.
I. M. Lewis, Le religioni estatiche. Studio antropologico sulla possessione e lo sciamanesimo, Milano 1971.