Di questo genio della poesia universale, Giacomo Leopardi (1798-1837), ognuno ha il suo Leopardi. Il mio è quello dell’Infinito e della Sera del dì di festa, memorie degli studi letterari, e del colloquio filosofico di De Sanctis su Schopenhauer e Leopardi: là dove è lutto, Leopardi t’infiamma il cuore. Scrive sulla canzone Alla sua donna Francesco De Sanctis: “O s’altra terra ne’ supremi giri / Tra’ mondi innumerabili t’accoglie, / E più vaga del sol prossima stela /T’irraggia e più benigno etere spiri, / Di qua dove son gli anni infausti e brevi, / Questo d’ignoto amante inno ricevi” (vv. 50-55). E De Sanctis commenta: “È una tristezza plumbea, ritirata in se stessa, senza espansione, senza eloquenza; una delle tante facce che prende la malinconia della lirica leopardiana. E siccome nel dolore dell’individuo è qui inchiuso un sentimento più generale, siccome questo contrasto tra l’ideale e il reale è una delle tante forme sotto le quali si presenta l’enigma della vita; lo scopo di questa poesia non è di destar la nostra compassione pei mali di un uomo, poniamo grandissimi, ma di renderci tristemente meditativi delle umane sorti. Vi trovi il problema dell’universo posto e non risoluto, con la coscienza di non poterlo mai risolvere; vi trovi il sentimento del bello, del vero, del giusto, di tutto ciò che chiamiamo ideale con la coscienza di una realtà tanto discorde: e noi meditiamo e sospiriamo (…)”. “L’anima del Leopardi è profondamente religiosa, avida di un ordine di cose divino e morale, che gli sta improntato nel cuore e di cui non vede orma in terra”.
Pierangela Rossi
L’infinito
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
La sera del dì di festa
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna. O donna mia,
giá tace ogni sentiero, e pei balconi
rara traluce la notturna lampa:
tu dormi, ché t’accolse agevol sonno
nelle tue chete stanze; e non ti morde
cura nessuna; e giá non sai né pensi
quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sí benigno
appare in vista, a salutar m’affaccio,
e l’antica natura onnipossente,
che mi fece all’affanno. — A te la speme
nego — mi disse, — anche la speme; e d’altro
non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. —
Questo dí fu solenne: or da’ trastulli
prendi riposo; e forse ti rimembra
in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
piacquero a te: non io, non giá ch’io speri,
al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
quanto a viver mi resti, e qui per terra
mi getto, e grido, e fremo. O giorni orrendi
in cosí verde etate! Ahi! per la via
odo non lunge il solitario canto
dell’artigian, che riede a tarda notte,
dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
e fieramente mi si stringe il core,
a pensar come tutto al mondo passa,
quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
il dí festivo, ed al festivo il giorno
volgar succede, e se ne porta il tempo
ogni umano accidente. Or dov’è il suono
di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
de’ nostri avi famosi, e il grande impero
di quella Roma, e l’armi, e il fragorío
che n’andò per la terra e l’oceáno?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
il mondo, e piú di lor non si ragiona.
Nella mia prima etá, quando s’aspetta
bramosamente il dí festivo, or poscia
ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
premea le piume; ed alla tarda notte
un canto, che s’udía per li sentieri
lontanando morire a poco a poco,
giá similmente mi stringeva il core.