Emilia Barbato

Emilia Barbato 1

 
 

Michele Paoletti intervista Emilia Barbato

 
 

Emilia Barbato è nata a Napoli nel 1971 e risiede a Milano. I suoi testi sono apparsi in diverse antologie, sulla rivista di letteratura Immaginazione Edizioni Manni e sull’Aperiodico ad Apparizione Aleatoria Edizioni del Foglio Clandestino. Geografie di un Orlo (CSA Editrice, 2011) è la sua prima raccolta. Seguono Memoriali Bianchi (Edizioni Smasher, 2014), Capogatto (Puntoacapo Editrice, 2016), I classificato sezione Libri Editi IX edizione del Concorso Nazionale di Poesia Chiaramonte Gulfi – Città dei musei, Il rigo tra i rami del sambuco (Pietre Vive Editore, 2018), I classificato Luce a Sud Est – concorso di scrittura sociale, Nature reversibili (Lietocolle, 2019).

 
 

Come nascono le tue poesie?

Le mie poesie possono nascere sia da un’emozione vissuta sia dall’amore per la parola e il suo suono. Mi è capitato di essere stata ispirata dal nome di fiori solo studiati o da una tecnica di riproduzione delle piante fino al punto da dedicare, per esempio, alla parola capogatto ben sei poesie e il titolo di un’intera raccolta edita da puntoacapo.

 

Quali sono i tuoi autori di riferimento?

Oltre ai grandi maestri italiani, amo la poesia francese e i surrealisti, la poesia slava contemporanea, la finlandese e la neogreca. Più che citare i poeti di riferimento preferisco pensare a tematiche e stili che mi hanno ispirata.

 

Che idea ti sei fatta degli autori della tua generazione? Che tipo di rapporto hai con loro?

Non amo le generalizzazioni, troppo spesso sento attaccare gli autori della mia generazione. L’utilizzo della tecnologia ha certamente favorito il fiorire di iniziative che se da un lato testimoniano la vitalità della poesia contemporanea dall’altro richiedono studio e selezione. Nel clamore dei mezzi di comunicazione occorre trovare la perla e di gemme ne esistono.

 

Lo scorso anno per Pietre Vive Editore è uscito Il rigo tra i rami del sambuco. Com’è nato questo libro? Ce ne vuoi parlare?

Il rigo tra i rami del sambuco è nato circa sei anni fa durante le lunghe notti trascorse in ospedale e i giorni della cura.  Scritto in un tempo sospeso, cogliendo il passaggio della luce e le sue sfumature, mi ha permesso di accarezzare quell’umanità nuda che la vita ha voluto conoscessi e che mi ha arricchito profondamente. Il libro è una somma di istanti di silenzio e profonde riflessioni edito sei anni dopo la malattia di mia mamma. Nel 2018, prima di spedire la raccolta al concorso di scrittura sociale Luce a Sud Est, promosso da Pietre Vive Editore in collaborazione con le associazioni Pietre Vive e Il Tre Ruote Ebbro, ho rivisto ogni testo allo scopo di eliminare ogni parola inutile e restituire a me e al lettore la pulizia e la compostezza di chi siede aspettando in una sala d’attesa la terapia. Desideravo che ogni parola superflua, ogni retorica, fosse eliminata e che restasse esclusivamente il clamore degli occhi.

 

Ad un certo punto tra le poesia de Il rigo tre a i rami di sambuco scrivi “fuori tutto si direbbe procedere / con l’entusiasmo dell’estate / ma dentro sono ferma, stretta /a una nuova chiarezza…” e ancora “dentro ho un residuo inverno,/ un’aria greve squassa l’universale / corrispondenza delle cose, bellissime / nella malattia e nell’abbandono.”. Il percorso attraverso il dolore porta dunque ad una maggior consapevolezza, ad una visione più chiara delle cose.

L’esperienza del dolore avvicina l’uomo al precipizio e comprendere la propria finitezza amplifica la percezione e il pensiero, il senso del mondo e della vita. La malattia genera un corpo unico. Chi sperimenta lo stesso dolore fisico e morale continua nell’altro, nella bellezza e ricchezza del sentimento di compassione. Ho capito che ciascuno è una scintilla dell’anima comune. Si è una parte del tutto e il tutto tiene ciascuno. Se gli uomini lo intuissero senza necessariamente arrivare alla lunga e progressiva discesa nel maelström della malattia si potrebbe pensare ad un’evoluzione della specie. Se l’altro è me come posso fargli del male? L’essere umano, razza più aggressiva del pianeta, ha bisogno di trovare il suo corpo esteso che prescinde dal perimetro fisico del sé e continua nell’altro. Solo intuendo la potenza e il respiro di questa realtà è possibile rifuggire dal male, tendere alla luce. Come propaggini di una pianta le mani si cercano, sperimentando il bene comune e la simbiosi. Ritengo che questa considerazione, nata dallo studio del comportamento dei licheni e dalla conoscenza della memoria delle piante, sia il dono più grande che abbia ricevuto, un senso nuovo di serenità e consapevolezza si è radicato in me. Dalla crepa, oltre al buio, è entrata tanta luce.

 

Parliamo adesso del tuo ultimo libro. Nature reversibili appena uscito per la collana I giardini della Minerva di Lietocolle diretta da Maurizio Cucchi. Vuoi raccontarci il percorso di scrittura?

Per raccontare il percorso di stesura dell’ultimo libro userò l’immagine di un sentiero che fin dal primo sguardo chiarisce al pellegrino la sua natura di foresta divina, l’amore. Ho riportato lo stupore di addentrarsi seriamente nella creatura corpo bosco, nel microcosmo di emozioni e bagliori e miracoli inauditi e nelle piccole insidie del cammino. Ogni passo accompagnato dalla magia della natura. Il vento del passato, del presente, le gemme che si aprono allontanando l’inverno, la fioritura e quel rigore che a volte torna nelle incomprensioni, nel desiderio di proteggersi con la certezza delle pietre, con la durezza del porfido.

 

A proposito di Nature reversibili, nella sua introduzione Maurizio Cucchi parla di poesia dove entrano oggetti minimi, Alessandro Canzian parlando de Il rigo tra i rami del sambuco nota L’attenzione ai dettagli, al vedersi e farsi piccole cose del mondo. Perché questa attenzione al minimo, al dettaglio?

Nel piccolo risiede la divinità. In quei minuti testimoni del quotidiano, passati di mano in mano trattenendo calore e odore, nel silenzio composto degli oggetti dove tempo e memoria si fondono, si ritrova l’archeologia della vita e dell’amore. La maestria dell’infinitesimo che sa sottrarsi all’urlato, all’ombra immensa dell’ego, tornando ad essere dimensione comune, perciò amata. Così, le piccole figure malinconiche ripiegano su se stesse all’infinito producendo poesia.

 

In Nature reversibili scrivi “nell’ora dell’amore / apro un tenero di foglie”, “L’amore mi apre ai sensi / nervature e foglie”. Amore quindi come sentimento che ci consente di sintonizzarci col respiro del mondo, della natura. É così?

L’amore è un fiato di bocche vivo nel vento che completa la meraviglia della natura e che dalla natura ci arriva in forma di ossigeno. Come insegna la grande tradizione poetica italiana tradurre i sentimenti umani utilizzando l’allegoria del corpo bosco permette di arginare in parte il limite proprio della parola e restituirle quel potere vivifico e immaginifico che ricrea tutto l’incanto del non detto.

 
 
 
 
 
 
A volte il vento è un bombo incastrato
in uno sconosciuto, strilla dal volto
emaciato di un uomo invisibile.
È un gene, una quinta stagione
da cui non esci, una mattina alla finestra
con i piedi al gelo, la pelle bruciata
dal freddo si incolla, dovrai staccarla
dal vetro, procurarti altro dolore.
 
 
 
 
 
 
È una pace malinconica la sera,
la luna nuova si allunga
sul colonnato con passo d’uomo
e rami nudi, pensi alle dita nodose
di un Dio padre posto al centro
del portico e a figure grottesche
guardando l’ombra dei palmizi, è
un edificio religioso questo corpo.
 
 
 
 
 
 
Rose essiccate
respirano pianissimo
con bocche screpolate
dalla polvere, solo
la memoria di un colore
e ancora le rose, vogliose,
lontane dai giardini,
ingiallite come lettere
che non scriviamo
e non leggiamo più,
una briciola di pane
gettata nello stagno
della grande mancanza,
nei becchi austeri di quei
cigni che controllano
postura e cuore praticando
infinite lontananze.
 
 
Poesie tratte da Nature reversibili (Lietocolle, 2019)