È l’inverno del sangue – Michele Paladino

È l'inverno del sangue – Michele Paladino

 
 
 
 
Gli uomini ormeggiano su una piattaforma di calce e sabbia,
nei loro occhi scintilla la segatura:
è l’inverno del sangue.
Immolano i maiali,
non prima di averli cacciati con le trombe,
ne recidono le corde vocali.
Bisogna fare in fretta; nuovo grano deve nascere,
nuove spine avranno da gridare.
 
 
 
 
 
 
È lecito supporlo:
siamo esseri deposti per l’annientamento,
imbuti di eclissi ineffabili;
calamitati a slanci fatui,
figure partorite da un’orgia oscura.
 
 
 
 
 
 
La luna incenerisce l’intonaco,
segue la traccia oscura di un incendio freddo.
Si fa strada sul tuo seno, spirito maligno,
la lingua sepolcrale di un’aquila sveva;
così una regale marea ossidata,
fra i cieli incoronati, di meteore.
 
 
 
 
 
 
Crebbe inanellata alle orbite circolari,
la bocca cerea aperta come una tenaglia,
cremisi colombe adornano la pelle lucida:
Gli impuri lasciano lì il loro seme.
I loro occhi leucemici sono coscienza del dolore superato.
 
 
 
 
 
 
Tra poco l’alba avrà sete.
Si aggrapperà assetata
sulle rovine dei cenotafi.
Non ha da terminare,
mai
mai.
 
 
(Michele Paladino, Breviario delle aberrazioni, Fallone Editore, 2021)
 
 
 
 

Già da titolo, l’opera porta in sé due elementi di fondamentale importanza per il poeta: l’attività di florilegio di ciò che è uscito dal seminato per mai più rientrarvici, e il testamento di chi non ama il mondo, né vuole farlo.

In una poesia che si nutre di scissioni e mutilazioni sostanziali, creare è sabotare la realtà che non può essere altro che allucinazione sanzionata culturalmente dall’orrendo, e rinforzata linguisticamente da una mantica feroce per cui ciò che sia sporco rimanga immondo nonostante il fine ultimo e sacrificale della stessa.

Paladino nella sua pagina, imbevuta di uno stile che dal romanticismo più intenso transita ad un decadentismo più denso, nonché memore, se non nella forma sicuramente nel nucleo della materia trattata, delle lezioni zingaresche di certe realtà ottocentesche del nord Italia, individua la propria ricerca poetica connotata di una amara (perché plutoniana) inevitabilità conoscitiva e della realtà e della significatività di questa.

In effetti, il dettato del nostro oscilla tra l’ammissione del verso rebus sic stantibus ed il confronto con ciò che più esoterico ed occulto sia celato alla vista, ed oscurato agli occhi al contempo, per poi sgorgare dalla materia non appena questa sia traforata dalla parola.

Come un chiodo che s’infigge, la parola contenuta in Breviario delle aberrazioni trapassa ogni elemento con cui si incontra, e trasfigura nella coscienza che stigmatizza il momento che già si è consumato, una sorta di perfezionamento della compagine del vero che, tuttavia, è sintomatico di profanazione – piuttosto che realizzazione.

Proprio perché “è lecito supporlo”, nella carne di/in cui scrive in Paladino è segregato l’orrore incontenibile di essere sé stessa, e di non poter essere altro che epifenomeno sciagurato e meschino; e di essere miserabilmente legata a doppio filo sia all’atto che può germogliare una visione, che alla condanna di aver avuto origine, ed un genetliaco.

Nella fisicità predominante dell’autore non si distingue l’estasi celeste dalla più viziosa carnalità; il che non si deve intendere come un giudizio morale quanto più, al contrario, quest’impulso di cui il nostro ci rendere partecipi sembra un atto di obbedienza, e contestuale castigo, istintiva ad una legge abissale che non si può eludere.

Così, esattamente come emerge dai testi dei più ferventi asceti, ciò che si produce dall’opera di Paladino è il desiderio più radicato e profondo che patisce il tentativo costante di identificarsi in un archetipo sacrale di cui tuttavia rimane ospite impuro, seppur ne conservi una istintuale devozione che, coerentemente, si declina in una brama perversa e aberrante, che si spinge al limite del pleroma divino per conoscerne la fine, per riconoscersi a sua volta in questo.

Sarà dunque la previsione del sogno come viatico d’accesso all’incubo, in una sorta di cammino iniziatico che – alla seconda lettura, e accogliendo l’eredità mortale della carne – si traduce nella fabbricazione di un symbolum in cui la versificazione sarà tanto immonda quanto sacra, così come l’ostia immolata non può ignorare il sacrificio per cui sarà tradita ed uccisa sull’emergenza primaria della poesia.

Concludendo, nella mistica del tradimento di Paladino è la notte ed il suo fantasma a sorridere al lettore, e nella pulsione innata che si struttura come slancio nelle cose piuttosto che verso le stesse, l’autore non potrà che ricordare il rammendo per cui si possa ricomporre l’unicum di Eros e Thanatos.

 

Carlo Ragliani