Dylan Thomas

Dylan Thomas

 
 

“Specialmente se il vento d’ottobre / Con dita gelate punisce i miei capelli / Artigliato dal sole cammino sulle fiamme / E getto un granchio d’ombra sulla terra, / In riva al mare, udendo il chiasso degli uccelli / E la tosse del corvo sugli stecchi invernali, / Il cuore indaffarato che trema se lei parla / Sparge sangue sillabico, drena le sue parole”. Sono i versi di copertina di Dylan Thomas. Poesie, Einaudi, 2002, a cura di Renzo S. Civelli, Traduzione e note di Ariodante Marianni, con una curatela speciale. Dylan Thomas (Swansea, Galles, 1914 – New York 1953) Nel novembre del 1953, quando il poeta fu ricoverato al Roman Catholic Hospital, era in preda a un attacco di delirium tremens probabilmente scatenato dai 18 whisky tracannati poco prima. Non si salvò e così concluse la sua esistenza da “poeta maledetto”. Il suo straordinario carisma, unito a un talento creativo notevolissimo, contribuì a creare un mito che già all’epoca ebbe uno straordinario impatto mediatico e che sopravvive fino ai nostri giorni. Nel volume delle “poesie” i componimenti migliori: dalle poesie giovanili degli anni trenta, a lungo rimaste inedite, ai testi più celebri della maturità artistica. I tour di Dylan Thomas e le sue pubbliche apparizioni erano in grado di scatenare ondate di fans (un fenomeno che aveva un corrispettivo soltanto nel mondo dello spettacolo e delle rock star.

Richiesto dal “Times”, il necrologio stilato dall’amico poeta Vernon Watkins diceva: “L’innocenza è sempre un paradosso, e Dylan Thomas rappresenta, in retro prospettiva, il più grande paradosso del nostro tempo”. Ciò che toccava i lettori, “era la sua capacità di coniugare con assoluta naturalezza ‘innocenza’ e contaminazione, esprimendo l’incanto quotidiano della forza innovativa della natura attraversata dai germi della corruzione, delle stagioni che si chiudono in se stesse per aprirsi, come corolle solari, al richiamo della rinascita vegetale, delle costellazioni che alternano, col loro freddo fibrillare, metafore siderali ed esplosioni stellari dense di calore e di sconvolgimenti, fino a concentrarsi nel microcosmo dell’anima, creando densi e organici corrispettivi tra l’universo e un semplice spirillo, uno stame, un’infinitesimale foglia sospinta dalla forza sotterranea e rigenerante della sua ‘verde linfa’ (“la forza che nella verde miccia spinge il fiore”)”.

Pierangela Rossi

 
 
 
 
Tutto tutto e tutto gli aridi mondi sollevano
 
 
I
 
Tutto tutto e tutto gli aridi mondi sollevano,
Piattaforma del ghiaccio, il solido oceano,
Tutto dal petrolio, dal pestare della lava.
Città di primavera, il fiore governato,
Ruota nella terra che fa girare in tondo
Le città incenerite su una ruota di fuoco.
Eccoti qui mia carne, mio nudo compagno,
Mammella del mare, glandoluto domani,
Verme nello scalpo, picchettato e incolto.
Magro come il peccato, midollo schiumante,
Tutto che è carne, gli aridi monti sollevano.
 
 
 
 
 
 
II
 
Non temere il lavorio del mondo, mio mortale,
Non temere lo scialbo sangue sintetico
Né il cuore nell’ossatura di metallo.
Non temere il trebbiare, il macinare seminato,
Il grilletto e la falce, la lama nuziale,
Né la pietra focaia nelle percosse dell’amante.
Uomo della mia carne, mascella spaccata,
Conosci ora la morsa e il blocco della carne,
E la gabbia del corvo dagli occhi di falce.
Conosci, o mio osso, l leva snodata,
Non temere le viti che trasformano la voce,
E il volto dell’amante forzata.
 
 
 
 
 
 
III
 
Tutto tutto e tutto accoppiano gli aridi mondi,
Fantasma con fantasma, uomo contagioso
Col grembo del suo popolo informe.
Tutto che prende forma dall’amnio e dal poppare,
Carezza di carne meccanica sopra la mia,
In questi mondi quadrano il cerchio mortale.
Fiorite, fiorite fusione di popoli,
O luce allo zenit, accoppiato bocciolo,
E fiamma nella visione della carne.
Fuori dal mare, getto di petrolio,
Portalampade tomba, sangue d’ottone
Fiorite, fiorite, tutto tutto e tutto.
 
 
 
 
 
 
Questo pane che spezzo
 
Questo pane che spezzo un tempo era frumento,
Questo vino su un albero straniero
Nei suoi frutti era immerso;
L’uomo di giorno o il vento della notte
Piegò a terra le messi, spezzò la gioia dell’uva.
In questo vino, un tempo, il sangue dell’estate
Batteva nella carne che vestiva la vite;
Un tempo, in questo pane,
Il frumento era allegro in mezzo al vento;
L’uomo ha spezzato il sole e ha rovesciato il vento.
Questa carne che spezzi, questo sangue a cui lasci
Devastare le vene, erano un tempo
Frumento ed uva, nati
Da radice e da linfa sensuali.
È il mio vino che bevi, è il mio pane che addenti.