Destinati a perdersi nel tumulto di una metamorfosi – Flavio Ermini

Destinati a perdersi nel tumulto di una metamorfosi - Flavio Ermini

 
 
assumono la mancanza come definizione le ferite
rendendo intollerabili le ceneri ai testimoni
quale esito della nostra inevitabile consunzione
nel declino dell’uomo verso la rupe dell’onda
indistinguibile dalle rovine del palazzo di fuoco
mentre tanto vicino alle foglie si fa lo sguardo
da trattenere illusoriamente una gioia fugace
 
 
 
 
 
 
al moto incerto del sangue verso la sua dissipazione
si oppone il sangue che bagna costantemente il cuore
nel mistero del mutamento cui ogni vivente è sottoposto
quando testimonia il prodursi di una lingua
in base alla quale i mortali statuiscono di parlare
pur essendo destinati a perdersi nel tumulto
di una metamorfosi che mai si rivela così compiuta
da essere con una certa precisione misurata
 
 
 
 
 
 
dà senso e forma al nostro esserci questo errare
sulle terre via via emerse tra le pietre d’onda
alla ricerca di un rifugio contro le illusioni
cui l’umana avventura induce nell’oscillazione
tra presenza e assenza in una sorta di estinzione
che appare incessante davanti alla dimora
della quale riconosciamo il vero fondamento
unicamente negli strati periferici del vuoto
 
 
(Flavio Ermini, Edeniche, Moretti & Vitali, 2019)
 
 

Un dettato lucido, chirurgico e apparentemente spietato connota questi testi di Flavio Ermini, tra la consapevolezza della provvisoria illusorietà di ogni gioia, la certezza della mancanza e della separazione e la testimonianza della consunzione della vita umana; sul basso continuo di un dolore calmo, ma costante, si avverte qualche rapido tratto di sangue, di passione, di desiderio di contatto e comunicazione, “tra presenza e assenza in una sorta di estinzione” – termine che, se da un lato appare tombale e inopponibile, dall’altro è anche la traduzione letterale del sanscrito nirvana – ad alludere a una serenità disumana, dove l’io è dissolto.

“le ferite” dell’esperienza vengono definite dalla “mancanza”: testimoniare “le ceneri” di ciò che è stato (di nuovo l’etimologia aggiunge significato: splendore contiene le ceneri di ciò che, splendendo, ora è perduto) è insopportabile, perché è costante ricordo del “declino dell’uomo … indistinguibile dalle rovine”; eppure il nostro “sguardo”, pur consapevole di ciò, “tanto vicino alle foglie” – ulteriore rinvio alla fragilità e alla dispersione dell’esistere – prova comunque a “trattenere illusoriamente una gioia fugace”.

È proprio questo vivere la gioia con la lucida coscienza della sua provvisorietà a rendere l’esperienza dolorosa, nel riconoscere, nell’illusione di un attimo felice, il profilo immediato della nostalgia che ne conseguirà, che ne corrompe l’autentica esperienza.

A tale “moto incerto del sangue verso la sua dissipazione”, in ogni caso, “si oppone “il sangue che bagna costantemente il cuore”, il sentire pulsante “cui ogni vivente è sottoposto”, nonostante la lucida coscienza dell’inganno; “i mortali … pur essendo destinati a perdersi nel tumulto / di una metamorfosi” immisurabile “statuiscono di parlare”, tentano in ogni caso un contatto, di intessere relazioni con l’altro da sé, pur sapendo che anche questo prezioso tentativo – ove vada a buon fine – precipiterà in una rovinosa dispersione e dimenticanza.

Eppure “dà senso e forma al nostro esserci questo errare”, perché cedere a un immobilismo rassegnato è già un esperire la morte in vita: il continuare a cercare sembra l’unica possibilità di poter trovare un “rifugio contro le illusioni … tra presenza e assenza” – e l’estinzione di cui all’inizio, sia essa da intendersi come pacificante dissoluzione di ogni dolore e aspirazione, sia come stato di grazia e annientamento della nostra tumultuosa coscienza individuale, “appare incessante davanti alla dimora”, quell’edificio che è il nostro esistere, intorno al quale l’uomo erra, torna, rifugge, riconoscendone il terribile “fondamento / unicamente negli strati periferici del vuoto”.

Una lucida coscienza della mancanza di senso e prospettiva, che precipita l’umano esserci in un’ansia esistenziale, dove ogni desiderio diventa illusione destinata a disperdersi, che Ermini risolve proprio nell’errare, alla continua ricerca di realizzare una risonanza con l’altro da sé (sia esso il mondo, gli uomini o la natura), pur consapevole della transitorietà di ogni passo: una struggente, serenamente razionale, dolorosa nostalgia di tutte le cose, in una sorta di ragionato mono no aware dal ponderato equilibrio – che sembra controllare una disperazione “calma, senza sgomento”, a voler scomodare Caproni.

Mario Famularo