Della misantropia – Manlio Sgalambro

misantrpia

 

Ci sono dei libri che leggi non per volontà, non per scelta, ma perchè in qualche modo essi ti chiamano a sé. È stato questo il caso di Della misantropia di Manlio Sgalambro (Adelphi 2012). Libro dal titolo quanto mai simbolico ed evocativo, quasi attraente direi, che oggi (e intendo proprio oggi 14 novembre 2015) torna prepotentemente all’attenzione per alcuni suoi passi che sotto ogni aspetto ed oltre ogni becera retorica aiutano a capire la tragedia francese di ieri sera.

Ho conosciuto telefonicamente Sgalambro nel 2009 in occasione di un libro di poesia della Samuele Editore che ha voluto introdurre con una nota breve ma densissima. Un uomo arguto, cordiale. Un uomo che oggi vorrei ascoltare di nuovo in relazione a questo attentato (purtroppo non è più tra noi) ma che forse già risponde col seguente passo: È la volontà del mondo, che si placa nella morte realizzata come destino di tutti. Nel delinquente la volontà distruttiva non proviene da una ‘cattiva’ società, ma dallo stesso nocciolo del mondo. Il delinquente, come un milite ubbidiente, esegue gli ordini del mondo.

Leggo in vari blog e riviste grandi proclami anti islamici e solo da qualche parte (come ad esempio nel profilo facebook dell’intelligente Eugenia Toni) delle avvertenze non tanto a guardare oltre quanto a guardare meglio ciò che è appena successo. Perchè è facile-troppo facile lanciarsi in (politici) slogan no al terrorismo o utilizzare il terrorismo stesso per dire no all’islam. Ma tutto ciò che accade ha necessariamente un inizio, delle motivazioni, e il guardare solo l’ultimo anello della catena (o la valanga di neve a valle) oggi significa non voler vedere cosa c’è a monte della catena stessa (chi ha lanciato la piccola pallottolina di neve dalla cima del monte). Vuol dire dimenticare l’intervista alla CNN di Tony Blair di neanche un mese fa (qui). Vuol dire dimenticare che il contesto è una guerra dove, volenti o nolenti, dobbiamo capire che non si attacca solamente ma anche si subisce (la Francia attacca l’Isis e l’Isis risponde, non con un attacco aereo certo, ma il significato non cambia). Vuol dire rispondere scioccamente e da branco di pecoroni agli stimoli che ci vengono dati (questi attentati non sono terrorismo nel senso etimologico del termine perchè il loro obiettivo non è creare un situazione di terrore, bensì il portarci sempre più vicini a uno scontro di civiltà che ad oggi rappresenta l’unica possibilità per quel gruppo minoritario di acquisire forza e capacità).

Personalmente mi vengono i brividi quando sento frasi tipo è la lotta della libertà contro la barbarie perchè altro non è che uno slogan politico miope e fuorviante. Questa è semplicemente guerra e forse siamo noi ad aver dimenticato cos’è la guerra. Siamo noi ad aver dimenticato che in guerra non esistono buonicattivi ma solo vittime e generali (non solo nel senso militare del termine) che hanno tutto l’interesse di metterle in mostra per i propri piani.

Oggi più che mai le parole di Manlio Sgalambro, nell’azzeccatissimo contesto di Della misantropia, appaiono come un monito per intus-legere meglio gli accadimenti. Perchè la volontà distruttiva non proviene da una ‘cattiva’ società, ma dallo stesso nocciolo del mondo. Il delinquente, come un milite ubbidiente, esegue gli ordini del mondo.

 
 
 
 

Della misantropia

 

C’è l’infelice che possiamo definire astratto. Egli è infelice e basta. C’è il più infelice, che odia se stesso. Infine c’è l’infelice assoluto, che odia immediatamente se stesso e mediamente l’altro. Costui è il misantropo. Non si è considerato abbastanza, però, il misantropo che unisce in sé l’infelice e il più infelice. Chiediamoci allora quale sia il suo scopo. Se la misantropia ne ha uno, è questo: rendere l’infelice il più infelice. Perchè infelici si è, più infelici si diventa.

La misantropia non è mai stata oggetto della filosofia, pur essendo originata da essa. Occorre odiare qualcosa perchè ne spunti un problema. L’uomo che odia se stesso: non è per questo che egli pensa? La dottrina delle Idee fu dettata a Platone da un subdolo odio per la realtà. Le Idee nacquero forse perchè a un certo punto Platone detestò Socrate e ne fece un’Idea. A una frase enigmatica del Simposio è affidato il mistero: «La vita della mente comincia a diventare acuta quando quella degli occhi è sul punto di perdere la sua forza di penetrazione».

[…]

La misantropia è il problema della disgregazione dell’Altro. Ma il misantropo ne ha bisogno per affermarsi come tale. L’atteggiamento misantropico ha un problema: il suo inizio non è l’io, ma l’Altro. Come chiunque, il misantropo ha i suoi impegni quotidiani. Non è bilioso. Gentile come un passero, anche lui cinguetta. La misantropia sta in agguato. Uno stato di avversione permanente caratterizza il misantropo. Per quanto riguarda il mondo, lo reputa soltanto una magniloquenza.

Il misantropo è certo di non avere nulla da spartire col prossimo, salvo l’odio. A un momento dato appare il misantropo che sa di esserlo. Che maneggia l’odio come il chirurgo i suoi ferri. Il suo luogo è la stanza. La grande cupola del cielo, che copre lui come gli altri, non gli interessa.

 
 

Teoria del delinquente

 

Hegel teorizzò nel delinquente la ragione che, infine, otterrebbe ragione dalla stessa natura del mondo. Ciò che la società condanna, il mondo lo assolverebbe avocandone a sé l’elemento distruttivo. Che il mondo non sia stato fatto per l’uomo, ma l’uomo per il mondo, capovolgerebbe il suo stesso rapporto con ciò che si chiama società. Anche quest’ultima è fatta per il mondo. Anch’essa, come il mondo, non potrà essere ‘migliore’. La società, che con un trucco si assume tutta la responsabilità, la toglie al mondo. Ma quello del delinquente non è un mistero che la società possa svelare. Il delinquente esprime qualcosa oltre il mero se stesso, al pari delle altre figure che hanno caratterizzato le civiltà: l’asceta, il santo, il saggio, il cittadino, il politico…

In realtà viene il momento in cui il delinquente esprime l’immanenza dell’ordine che rappresenta e lo introduce nel mondo, che vorrebbe dimenticarlo. Egli esprime con esattezza matematica ciò che viene dall’infimo. Ma poiché il mondo stesso viene dai bassifondi, il delinquente assume il ruolo di suo rappresentante. […] È la volontà del mondo, che si placa nella morte realizzata come destino di tutti. Nel delinquente la volontà distruttiva non proviene da una ‘cattiva’ società, ma dallo stesso nocciolo del mondo. Il delinquente, come un milite ubbidiente, esegue gli ordini del mondo.

 
 

Dialoghetto tra Epicuro e Colote

 

Colote: Da quando hai attratto astutamente la mia attenzione sulle pietre – i nostri avi, mi hai detto, rendevano onori divini non a statue, ma a pietre non lavorate, e Hermes prima di essere un dio era solo pietra –, non ho avuto pace, e ho atteso che il nostro colloquio riprendesse per saperne di più. Levigate dal tempo, passato su di esse come la mano di un dio, le sculture, a confronto, hai aggiunto, sono giocattoli per bambini. Ma dimmi, dunque.

Epicuro: Sì, di questo ti parlai, e potrei aggiungere che i nostri vecchi riponevano al centro del mondo l’omphalos, e altre cose ancora potrei dirti, ma il mio intento era di attirarti dove volevo, allettandoti con cose curiose e piacevoli. In realtà io vedo in esse, nelle pietre, l’incarnazione di un desiderio. Vi vedo l’immagine del bene, o Colote.

Colote: So per esperienza che non parli mai invano, anche se in quello che dici talora mi sembri ebbro. Ma veramente è assai oscuro, se può essere come tu affermi.

Epicuro: Bada, io ti incito al desiderio del bene, non a farlo. Quest’ultima cosa mi atterrisce solo a pensarci.

Colote: Non vedo senso in quel che dici, amico. Non fu il bene il più nell’ornamento dell’uomo? Non fu anteposto da te stesso alla ragione? Non è profumo della vita?

Epicuro: Non mi deludere Colotuccio. Rifletti. Cos’è fare il bene a qualcuno? Anzitutto non fargli del male. E come puoi, se già vivendo glielo causi? Se già ammazzi, rubi, stupri senza che né gli altri né tu stesso ve ne avvediate? Giacché tali cose e altre del genere equivalgono a ‘vivere’.

[…]

Colote: Ma non è questo il bene, Maestro? Perché sei così cauto, perchè ti ostini a non pronunciare il nome o lo fai così a malincuore?

Epicuro: Perché, mio piccolo amico, a me il bene pare immenso – e troppo indegno, invece, il vivente – o solo uno schiocco della lingua, un semplice movimento di labbra. Ma ci pensi, Colote, all’eco misterioso di questa parola? E a come poté, sia pure per un attimo, sognare sino a questo punto senza cadere morta all’istante? Noi che non siamo più (o che siamo come se non lo fossimo) siamo nel bene, nulla turba il nostro quieto discorrere, e l’aria ci nutre, e gli odorosi fiori accompagnano i nostri sensi con mille colori. Per noi morti il bene è raggiunto.

Colote: Ma allora, come vedi il destino dei vivi, tu che cercasti per loro, e ti accollasti il loro dolore, spremendolo tutto, per dare a essi solo il piacere? Cosa ne è di questa vita di cui un uomo si riconosce più o meno degno, a seconda di come trascorre i suoi giorni e degli atti che compie? Se tu dovessi ancora parlare ai vivi, cosa diresti loro, o Epicuro?

Epicuro: Parlerei di statue, o Colote. Di pietre e di fatui desideri, così come ho fatto con te. E non cercherei più, negli interstizi dei cieli, beati da imitare. Guarderei quel ciottolo lungo la via che porta al nostro giardino, dove non arriverei mai, perché in quel ciottolo mi parrebbe di aver intravisto l’immagine del bene. E rimarrei lì fermo per sempre; e non vi sarebbero più né giardino né tu stesso Colote, né Fedrio, che per testamento lasciai libera. Vi sarebbe solo Epicuro, Colote. Solo e felice.

 
 

De gubernatione

 

La dissoluzione delle società nei loro governi è qualcosa che sta avvenendo sotto i nostri occhi. Avviene giorno per giorno. Quello che ci avevano insegnato era quanto di più aleatorio si potesse – almeno così di è dimostrato –, e la società stessa è sfumata sotto i nostri occhi. È cessata nel frattempo anche la ricerca della società migliore, che sembrava essere diventata un genere letterario di tutto rispetto, seppellita dalle rovine di quella società in cui la società migliore avrebbe dovuto fare la sua comparsa. Per conto mio, ciò che ora mi interessa di più è il governo migliore. Il che rientra anche nella brevità della vita.

[…]

Naturalmente se io cerco un governo migliore è perché oggi domina un concetto di governo che è il peggiore possibile. Non sto dicendo che sono governato dal peggiore dei governi. Ma che sono governato dal peggiore concetto di governo possibile. Questo governo, di cui trionfa il concetto, ogni giorno fa avvertire la sua esistenza, ogni giorno parla di sé e si rende visibile in tutti i modi. Elogia quotidianamente le sue attività e le funzioni in cui si estrinseca il suo essere in maniera indecorosa. Come se si potesse ammirare un individuo che si vantasse ogni giorno delle sue funzioni corporee.