Credere è dire il vero – Gianluca Chierici

Credere è dire il vero – Gianluca Chierici

 
 
 
 
IV
 
Così come la regola cattiva e reciproca
così come credere,
perché credere è dire il vero
lasciare una teoria intorno alle parole
lasciare l’ombra delle parole
                                    intorno alla loro bocca
perché come un fiato capovolti
perché coinvolti in tutte le esequie,
                                    in tutti i parricidi
loro, sempre nel fiume
nel camice bianco ancora più stretti
ancora più stretti
entrano e sanno entrare
anche tu entrami innocente
nella vena che rimane cattiva
stretto al sangue della festa
mentre compro le mele alla bancarella
comprami il vestito che merito
il vestito che rivela il sacrificio
il cervo che ho vissuto e cancellato.
 
 
 
 
 
 
IX
 
Tu vieni, certo, formidabile cono
imparziale risucchio
vieni, crisi e bestemmia
infantile e collerica nell’inchino più banale
nel sistema che si erge a barriera
vieni e divieni, manifesto e metamorfosi
della collera e dell’infanzia
deciso come l’epidemia dell’anno scorso
e scrollami dal cuore ogni resistenza
furibondo nell’azione tragica
vieni e mangia tutta l’umiltà che ho imparato
e fammi figlio di questo sterminio
vieni nella luce che immola tutte le tempeste
                                    nell’eccellenza corrosa
dischiarando l’infanzia contro il disastro.
 
Tu che sei nascita, vieni nel canto
che dissimula e dichiara
che la poesia ha un sangue tiranno
e che è pazza nelle nostre stanze
la disfatta vecchia rapida mistificatrice del corpo dei poeti
fantasma unico delle menti identiche
che fa l’amore nel fuoco d’ogni accusa.
 
 
 
 
 
 
XI
 
Vai a fare il baccanale, vai corri
esattamente come hai visto fare
                                    nel sole del tempo
vai e bacia il malefico efficace doppio
                                    ipotetico
fa’ che sia il benvenuto
l’ordine unanime che scompare
tu sei tra tutti coloro che ho amato
tra tutti coloro
che hanno visto la morte bianca
che incastra il poeta nel colpo decisivo
tu sei l’incarnazione colpevole
della voce che dice
che sempre dice: “non scrivere un libro per lei
                                    non scrivere, no, non scriverne”
e dice, sempre dice, che il demone è carta
che parla ed implica
una corretta follia culturale
una seconda scelta dei riti perduti
e allora bacialo
il maleficio linciaggio dell’azione tragica
la filiazione delle parole corrotte ed espulse
il più lontano possibile dalla verità, bacialo,
come distanza terribile dallo stesso modello
                                    di credenza e di paura
che hai imparato e ucciso nel tuo stesso sangue
che non sia sottomissione
che non sia cuore morto, rotto.

(Gianluca Chierici, Inferno bianco, Fallone editore, 2020)

 

 

 

 

L’intensa opera poetica di Chierici esordisce già da titolo squadrando la tematica infera, ipogea, e tragicamente violenta della parola che non può non sfuggire a sé stessa; e, per questo, come non le viene concesso di trovare nascondiglio o riparo, non può celare lo sfregio della genesi quasi follemente ditirambica che la concreta nella poesia.

Procedendo con ordine: l’accostamento del concetto infernale al colore bianco slarga sia sull’ossimoro per cui si possa associare l’assenza di ogni colore alla presenza di tutta la brutalità poetica, sia sulla porzione in-finita del colore bianco che (come il nero) non è una tinta o un colore da intendersi propriamente, ma un assoluto cromatico che importa automaticamente una campitura sulla tela, ed uno squarcio nella poiesis da cui entra ed esce la condanna eterna della gehenna.

Questo paragone, per certi versi, sembrerebbe fondare una incoerenza terminologica, se non anzi un assurdo illogico; ma questa a-razionalità creativa annichilisce il principio di non contraddizione che invesca ogni sorta di riferimento letterario, ed invece di porre nel nulla gli effetti e l’origine del verso, ne acuisce la percezione maligna nel dramma di non poter che assistere al senso furioso della forgia creativa.

Per questo l’io poetante di Chierici, in questa sede, non è mera bocca della poesia, come pure non ne è l’attore; in quanto, considerando il procedere marziale e tutt’altro che retorico, il soggetto lirico è attante sia della narrazione, che del contraddittorio instaurato nella lettera, e non cerca un confronto quanto più inquisisce la materia poetica, interrogandone la struttura di fondo.

Stilisticamente, e (forse) per la medesima ragione, l’opera di costruzione e distruzione che anima il verso del nostro, e spinge nella fucina in cui l’Opera si avvale di una serie di anafore che, martellando e informando il verso sull’incudine, incalzano e scalzano il lettore ininterrottamente.

Deinde rassomigliando il gesto costante per cui il mantice debba espandere il polmone per poi esalare sulle braci, la versificazione sembra ascendere per poi precipitare e ritrovarsi così in sé stessa, indicando e puntualizzando quella porzione semiotica che insiste come significativa del dire, e del pronunciato come suono.

La lingua di Chierici risale le profondità della terra come un fuso viscoso, cristallizzando figurazioni sedimentatesi in una memoria al contempo individuale e collettiva, impastando elementi eterogenei tra loro – assommando così alla cultura, alla personalità, ed alle necessità del canto, gli esiti inevitabili per cui la parola poetica non possa che confrontarsi con quella realtà più recondita, oscurata perfino all’antropocene.

Tuttavia, caratterizzandosi per l’oscillazione tra vicinanza e distanziamento da certi modelli – e, soprattutto, per l’esigenza e l’urgenza di non conchiudere il proprio racconto lirico entro schemi rigidi e ripetitivi – questo testo insegna il linguaggio del sangue; e che, se vi fosse una verità, sarebbe la violenza l’unica meritevole.

Così potremmo affermare che la poetica di Chierici risulti tanto ermetica, e impastata nella matrice lirica del canto, da non essere completamente tale: il che è mimica di una sorta di circolarità nell’opera, ed anima una dialettica per cui l’incatenarsi dei componimenti struttura un singolare dialogismo interiore, dove la filigrana dell’opera si innerva nella continuità argomentativa fino a incontrare anche la consapevolezza di quel che sia la poesia, o ciò che ne sia rimasto.

Questa coscienza del sé e della propria opera come “monologo che si perfeziona nel dialogo” introduce una vera e propria deformazione del canone diegetico tipico del codice lirico, perché – trattandosi in questa sede non più un io poetante come epifenomeno della natura umana, ma di una voce che condensa una riflessione ancestrale, invisibile a molti – il nostro consegna il testimone della propria comprensione a chi sa assolutizzare le sorti della realtà mitica con esso.
Per questo, il senso sostanzialmente plutoniano della percezione del vero conosce la vita in ogni sua singola sfumatura, nella sua completezza – prediligendone la natura sanguigna ed instabile; così aderendo infine alla connotazione tragica della sorte dei vivi, affine senza dubbio all’inferno, che tanto brucia ed è luminoso, da esser bianco.

Carlo Ragliani