Re-wind: il Corpo striato di Frolloni riavvolto da un vento che “si infila dappertutto”
Su Corpo striato, Riccardo Frolloni (Industria e Letteratura, 2021).
Non è bastata una sola lettura integrale del libro di Riccardo Frolloni per capire, per ottenere forse una delle chiavi adatte ad aprire il suo testo. “L’ultima parola che il lettore incontrerà…” (sin dalla prefazione), è termine ma non fine: non c’è riva d’approdo, terra di arrivo alcuna da tenere a vista; quell’ultima voce da cui Stefano Colangelo vuole farci iniziare si fa canale, valvola di conduzione. E il percorso “perde più volte – e poi riconquista – una direzione, un orientamento, come in una camminata fatta senza coordinate, per istinto, nell’inganno feroce della sua storia”. L’inversione di marcia è quindi posta già dalla partenza.
Questo itinerario scoordinato è intrapreso da un sogno; il primo dei sogni. Sogno segnato da una dedica che lo precede di poco: “a mio padre morto”. Non c’è scampo, non un tentativo eufemistico nel dirci il lutto: l’autore ci inserisce pieni nel suo Corpo striato (Industria e Letteratura, 2021) e in tutto ciò che vi è contenuto. Il sogno, dicevo, il primo dei testi comincia in salita in una fatica fattasi montagna e aria fredda che fissa il sudore – il malore – addosso. Ci viene reso l’affronto a questa sfida fisica ed emotiva con elementi che torneranno e che saranno indizi nel leitmotiv del disagio del dolore del presagio di lutto per tutta la durata del libro: la montagna, il vento, il freddo, la corsa.
Sembra in preda a una febbre il poeta, un malessere da collasso. E se lo dice “non svenire ora, resta sveglio, svegliati” per richiamarsi alla terra, per toccarla con le mani. Tale io febbrile che attraversa a passo svelto la scarpata iniziale si presenta ai miei occhi come il padre nell’Erlkönig (1782) di Goethe, durante la convulsa cavalcata notturna per cercare di salvare (o almeno di tenere sveglio) il piccolo figlio gravemente malato; ma poi scoprirne tragicamente alla fine la morte. In Corpo striato, però, la visione è invertita: è Frolloni – il figlio – che porta in grembo il padre, o almeno il suo ricordo; è lui stesso a tenersi sveglio in questa memoria, a non abbandonarsi al richiamo delirante di un “Re degli Elfi” che è in realtà il lutto stesso. Il dolore, nudo e crudo; ma non crudele. Ecco il tentativo di ordine che il poeta persegue con fatica anche fisica: non permettere che la sofferenza si faccia male di vivere nel presente. Onorare in qualche modo quell’esistenza trascorsa, renderla accettabile – legittimare la perdita senza dire. L’autore stesso confessa esplicitamente in quella che ho visto quasi come una netta dichiarazione di poetica che “il limite col sogno è incerto e tutto il male si magnifica e si scarta, allora ogni parola o gesto/ significa più del non detto, nella logica della sottrazione e del signatura rerum” fino al punto estremo in cui “sentire è lettera muta”.
In Analisi dei sogni (1909) Jung scrive che se incapaci di assimilarlo, un evento sgradevole e traumatico “diventerà un corpo estraneo e formerà un ascesso nell’inconscio; allora psicologicamente, comincia lo stesso processo di suppurazione che accade nel corpo fisico. […] Il sogno” continua “è un tentativo di farci assimilare cose non ancora digerite. È un tentativo di guarigione”. In Corpo striato Frolloni mette in atto un processo che inizia dalla sua fine, dal suo esito ineluttabile, per placare l’ascesso – il delirio di Februus – che porti alla purificazione. Questo rewind avviene in silenzio, a partire dai sogni in cui “le parole non legano” e, nelle loro varie numerazioni, mostrando i gesti e i moti amplificati come preparativi simbolici alle altre sezioni di materiali e movimenti: li preannunciano in una dimensione fantasmatica, quasi a cercare un ordine dialogico tra l’immaginato/il ricordato e la lucida realtà del presente.
Qui non c’è mai viva voce; l’autore lascia parlare i muti accordi, gli atti semplici e sommessi. La discrezione quando “prendo la busta della spesa, apro/ la porta di casa, e mi invento tante parole/ e nemmeno una che sia vera, che dica qualcosa”. Il fare supera il dire in manifestazione e concretezza.
Lo sforzo di fissaggio al suolo con cui, appunto, il poeta si tien desto è reso da un abitare domestico dei termini dove “le cose che ci son da fare” sono umili come “l’aria di casa” presa tutta in un respiro, o l’antifurto tolto nel negozio di una vita. Il dolore viene “scritto” in minuscolo (già il titolo, noto) per lasciarlo alla dimensione privata, per spogliarlo – come premesso – farlo nudo, crudo; mai crudele.
L’autore dissemina il libro di indizi che parlino al suo posto, al posto del padre che voce quasi non ha neanche negli intervalli onirici. Eppure rimane, è ritrovato così nei materiali minerali grezzi, molecolari, analitici – non sintetici. Spazio naturale della memoria, Corpo striato è dunque una terra (“a fare un corpo ci vuole tutta una terra”), la terra dove Frolloni lascia questa semenza – semema di significati esistenziali in cui la poesia dice senza dire attraverso il vento.
Un vento che stravolge, che riavvolge. Che “si infila dappertutto”.
Arianna Vartolo
sogni I
Era lungo la scarpata e i massi e la merda delle vacche
e procedeva bene, a passo svelto, diritto di schiena, nell’aria
leggera della montagna, ognuno attento ai propri piedi
col sudore sotto la camicia e il fiatone, il mal di gola,
nel sonno devo aver perduto la coperta, slabbrato il pigiama
o dimenticato una finestra aperta, così uno spiffero,
un rumore dal fondo delle campagne s’intrufola,
diventa subito un fischio, mio padre già in cima
del primo promontorio, ce ne sarà poi un altro
e un altro ancora, ma neanche una parola, aveva il volto
sereno, da uomo, mi ammoniva di salire, di darmi
un tono, ma io arrancavo, passavo da altre parti, lo perdevo,
lentamente gli altri scomparivano nelle nuvole
o dietro ai sassi, io pure mi facevo più bianco con la pelle
fredda di sudore, mi dicevo non svenire ora, resta sveglio, svegliati.
movimenti I
Ci fecero uscire tutti dopo l’ultimo sguardo,
non avevo mai visto il giardino così, la gente
stava in piedi dappertutto, guardavano noi
mezzi scemi, rimbambiti dal piangere, allora
davvero qualcosa era accaduto: prima
la macchia, il cielo, i pioppi intorno, gli stessi.
C’era mia sorella ad aspettarmi e con un respiro
raccolsi tutta l’aria di casa, ed era ancora casa.
sogni III
Subito il rumore, la frattura dei rami, delle spine, l’erba che si schiaccia, quel
soffocarsi o colpo al cuore perché per primo giunge, poi senti le gambe, jeans e giubbotto
che sfrega e le sterpaglie che si arpionano dappertutto, ed eccole le mani,
l’accendino in tasca, sono nel bosco, è notte, ma la luna ti fa vedere bene
o non vedere niente, e il freddo di casa, la voce della sibilla da ogni tana o volo
di pipistrello, sono svegli e fanno tutto il cielo, io cammino
almanaccando qualcosa, pensieri vasti ma più spesso
parole a vanvera di chi sogna o è in preda all’ansia, ma anche semplicemente corre
su foglie secche a scaldare i piedi, le ascelle strette a farsi piccolo, ricordo bene quei sentieri
ci portavano in posti dove serpenti o pneumatici, rifiuti vari apparivano, ma noi
eravamo lì solo per passeggiare, per fare un po’ di moto e respirare l’aria buona,
mai li avevo percorsi di notte, mai da solo, non mi spiegavo di che correvo, di quale freddo
soffrivo, più facile capire che non sarebbe finito,
che il bosco non è un bosco ma
un torcersi di lenzuola, e il bianco della luna quando poi parli della vita o solo.
preghiera II
Madre, ti vedo in lontananza e ho pena
di non esserti abbastanza uomo, noi due
ci scambiamo negli specchi, mentre scivolo
dietro, ti prendo la busta della spesa, apro
la porta di casa, e mi invento tante parole
e nemmeno una che sia vera, che dica qualcosa,
hai un libro che ti ho prestato, lo leggi
due pagine alla volta, l’hai iniziato
con il letto ancora piccolo, ora invece
sembra tutto più grande, l’aria la vedi
pesare dai soffitti, soffia dalle camere di sotto,
io per questo di notte cammino scalzo,
farmi parte di questo niente, per paura
che ti possa sembrare qualcuno.