Elisabetta Destasio licenzia, per i tipi delle edizioni Annales, la sua seconda opera poetica dal titolo (a dire il vero molto affascinante) Corpo in animae. Devo ammettere che mi sono innamorato subito di questo non solo per la dicitura latina, che mi è ancora deliziosa, ma soprattutto perchè proprio il latino evidenzia la dicotomia tra corpo e anima nella sua immediata essenzialità di una lingua priva di articoli che concentra così il suono nelle parole. Evidenziandone significati e sfumature. Corpo diventa quasi un peso, una cosa greve, mentre anima e in questo caso declinato in animae comunica ancor più la leggerezza di un quid più o meno umano che ancora divide le opinioni.
Ma Elisabetta De Stasio non è nuova a tali commistioni appese a un filo sottile, subito pronto al rompersi, si legga infatti il titolo della sua precedente raccolta: Sogno d’acciaio. Autrice all’interno di un interessante processo di evoluzione che non dichiara alcuna definizione, alcuna conclusione di percorso, è prefata in questo volume da Alberto Bertoni che così si pronuncia: Quest’opera seconda di Elisabetta Destasio s’impernia su due giustapposte modulazioni della parola, il che equivale a due ben distinte visioni del mondo. Nella prima, la pronuncia dell’autrice imbocca e percorre fino alla fine la via della tensione fantasmagorica, tragica e naturalmente portata a interrogare e sfidare il sublime proprio della poesia barocca, tra gli elisabettiani inglesi e Giambattista Marino. Entro tale ambito, il lessico è alto, non di rado intessuto di lessemi attinti all’italiano prenovecentesco […] Sull’altro versante, invece, esiste e si manifesta una Destasio molto legata all’intonazione franta, sincopata, essenziale fino alla nudità strutturale di una parola assoluta che è stata magistralmente introdotta nella tradizione europea dall’Ungaretti dell’Allegria. […] Il punto d’unione tra le due tendenze risiede nel vortice metamorfico che trasforma l’umano nel suo contrario (la mineralità degli astri) o nella vitalità residua del mondo botanico, arboreo: una viva percezione del tragico.
E in effetti nei versi di Elisabetta c’è tanto mondo, se non troppo. Non nel senso di un’esasperato peso dello stesso (che sarebbe comunque tutto giustificabile) quanto di una passionalissima necessità di capire la propria posizione all’interno d’esso sotto diversi punti di vista, senza momenti di discontinuità tanto che l’essere acqua (per fare un esempio tratto dai suoi versi) diviene sinonimo di io sono, io esisto, comunicando l’equazione poetica: se capisco dove sono all’interno di tutto questo, capisco chi sono (s’intenda: dove sono in senso esistenziale). Tale necessità, accolta in un’autrice dal cuore evidentemente pieno e attivo, non può che diventare anche disorientamento, spaesamento: Senza noi, niente. / Nemmeno la notte.
In realtà il noi, che ho erroneamente introdotto quasi per caso, si presenta tra le pagine più come una chiave di lettura obbligatoria e importante non tanto della visione di Elisabetta del mondo, quanto della visione della sua posizione nel mondo. Il chi sono, che è diretta conseguenza del dove sono, è risolto tra i versi nel tu che evolve in noi, non di rado drammaticamente, con una continuità che dice la passionalità poc’anzi accennata, il suo amore.
Che poi questo amore sia realmente una delle chiavi di lettura possibili dell’esistenza, e in qualche modo della sua risoluzione, personalmente non lo so. L’autrice pare, se non convinta, d’essere almeno desiderosa di percorrerne la possibilità, riuscendo in effetti ad essere maggiormente efficace proprio in questo aspetto. Con versi a tratti luminosi, importanti, in altri momenti asciugabili, ma che non mancano di stupire: Come un corpo solo, / noi, / divisi da un pannello / di liquida, disarmante, / tenerezza.
L’insenatura che t’ha fatto chiedere
L’insenatura che t’ha fatto chiedere
alle mie labbra: è qui che risiedo?
Baia, miele, uno sciabordio le nostre bocche.
Questo arco, color roccia.
Questo infinito, nel finito della tua pelle.
Cadranno massi attorno
e noi, anime naufraghe,
saremo salvate da questo bacio.
La mia risposta è sì.
È qui che risiedi.
E poi, più giù,
a sprofondare dentro noi.
Entra e non uscire da quest’abisso.
Blu, rosa, verso il rosso.
Non in sogno,
ma in questa cruda, come d’ostrica, realtà,
io vivo.
Attese sponde
E allora dammele le tue labbra.
Quasi fossero un’isola.
Quasi fossero terra ferma
su cui naufragare.
Un approdo dopo il navigar
senza sosta alcuna.
Un’ombra, un getto d’acqua dolce.
La fonte, il giaciglio, il sotto le ciglia.
Quasi fossero la fortezza
e fuori mille soldati
e la guerra.
Quasi fossero la tregua, l’assoluzione,
il mosto, la manna, il nettare.
Quasi fossero mie, le tue labbra.
E tue le mie.
A salvarci dal mondo.
Via dei Bibiena, Bologna
Ci sono luoghi, vie,
corti protette
dalla penombra
e presagi di temporali.
Fa silenzio l’aria,
prima della pioggia
e dopo il tuo arrivo.
Proprio prima dell’ amore.
Editata
Sto, così:
come tra due virgole, un inciso,
spiegata in un dettaglio.
E sono poi, la virgola che hai tolto,
quella che hai spostato.
Il punto a capo,
il capoverso,
la parola chiave alla fine della quarta di copertina.
Nel punto esclamativo,
mi hai messa, ti ho messo,
sull’asse ininterrotto.
Senza interlinea, a separarti da me.
Ventotto versi, tutti d’un fiato.
Incluso il tuo nome,
la firma.
Rileggimi e mentre tu lo fai,
io scorro fluida e
mi ritrovi nel capitolo secondo,
nella successiva pagina.
Espressa, nero su bianco.
Ad esserci, esclusivi e vivi,
esattamente come la parola scritta.
Il romanzo e l’egloga insieme.
Nessuna cancellatura.
Andiamo in stampa.
Compresi i battiti.
Metrica modificata
Questa notte,
ha dentro sé
un odore così percettibile
di eterno.
Ti mette in gola
un fiato corto.
Allontana di mille
e mille miglia,
il gene modificato
che si infila tra le mie cellule.
Come se qualcuno
avesse sbagliato l’esito
del referto.
Signora, guardi,
non è il cancro,
è solo un mucchio
di terzine da ricomporre.
Attesa della notte
Abbiamo atteso la notte,
dentro al vociare muto
di radici sommerse
e stelle inghiottite
da un cielo nero.
Ci ha sorpresi, spiazzati,
gettati là, la notte,
come due isole greche,
separate da un blu cobalto.
Come un corpo solo,
noi,
divisi da un pannello
di liquida, disarmante,
tenerezza.