Come sarei felice – storia con padre, Tommaso Giartosio (Einaudi, 2019)
Storia con padre è il giusto sottotitolo per Come sarei felice, la prima raccolta poetica di Tommaso Giartosio, narratore e saggista, pubblicata nella prestigiosa collana “bianca” dell’editore Einaudi. Prova a fare il resoconto di una delle morti più emblematiche, la morte del padre, questo libro intenso e sfaccettato, racconto di vita sincero, a tratti sfrontato, di un uomo che l’incontro con la morte rende insieme più pensoso e più spavaldo. C’è un leit motiv nel rapporto tra ogni padre e ogni figlio: il padre, costruito negli anni teneri dell’infanzia o in quelli inquieti dell’adolescenza, resta a lungo fermo – effigie, simbolo – per essere poi indagato, svelato, compreso magari in extremis, e spesso oltre l’estremità. Come sarei felice è il secondo tempo del dialogo tra un figlio e un padre, ora morto, un dibattito che in vita non ha potuto essere completo e che qui si esplica in una poesia carica di tenerezza e rimpianto tanto quanto di riconoscenza e speranza.
Si parte dalla descrizione: il padre morto d’infarto, a sessantotto anni e sessantotto giorni, la meccanica “noiosa e pericolosa” della morte, i segreti, i non detti che restano, il mondo che va avanti comunque, la nuova grandezza della madre vedova (“generosa ora che non hai piú niente/ e sei tutto”). Il senso di morte si espande inevitabilmente, contagia il mondo intorno. “La lama insanguina la mano”: “inoffensivo è solo il boia. Tutto il resto uccide”. Ma nell’autore cresce insieme la necessità di completare un dialogo ancora in corso, bruscamente interrotto. Giartosio interiorizza quel dialogo, attraverso l’intimità accorata e insieme artificiale della poesia si fa “portavoce del silenzio” del padre. Cerca di recuperarne la presenza negli oggetti, nei luoghi, nei ricordi che si trasfigurano sommersi dalla marea del “dopo”, o almeno in sogno, dove il padre appare proclamandosi “viaggiatore d’alba in alba come Ulisse d’isola in isola”. Se si guarda bene, per affinità o per contrasto, il padre è in lui stesso. “Tutto ciò che non si rivedrà mai/ abita gli specchi”.
Lo scavo, la ricostruzione, la meditazione, il conato producono la sezione centrale del libro: il poemetto “La stellina” dedicato all’avventura in vita del padre, “il migliore che ci sia”, capitano di navi, dolcissimo eterno ragazzo che leggeva Chesterton e amava il mare, “cive di un deserto che vive”. Lo rivediamo splendido in divisa di giovane ufficiale, in guerra come a una suprema iniziazione, come fosse la scoperta dell’orgasmo vaginale; e poi perfetto nell’incastro con la moglie, insofferente alla routine dell’ufficio, coraggioso nell’affrontare “il demone dell’umiltà”, libero e testardo nell’insubordinazione che insieme lo uccide e lo salva. Si muore una volta sola, dice Giartosio, ma la morte non estingue il senso di una presenza. Qualcosa sopravvive, “la tua luce che mi raggiunge ancora/ anni dopo il collasso, una scintilla/ nel buio della verità”. A quella luce, al padre trasfigurato, l’autore chiede quello che ha chiesto in vita, ma più esplicitamente: almeno di “assentire tacendo” al suo modo di amare, alla sua parte dell’amore universale.
È questa la storia più ampia in cui la morte del padre si inserisce: la vita del figlio, che arriva da lontano a quell’incontro, che la seconda parte della raccolta più apertamente indaga. “Per non morire vivo nei miei sogni,/ dipinto sui fondali che mi fingo:/ quello che non mi hai dato e non mi togli./ Vivo questa mia vita falsa e varia./ Non la tua verità, non la tua morte:/ ma la vita di tutti, immaginaria”. Scrivere è sempre vivere vite altre; scrivere col “vizio di ordire endecasillabi”, come diceva Borges, acceso da un raggio che viene da “biblioteche oscure”, è anche, per Giartosio, predisporre “tranelli meticolosi” con cui dissimulare “una poesia d’amore d’un uomo a un uomo”.
Risalta in Come sarei felice un’arte nutrita di lettura e consapevolezza, un’attitudine al lavoro di precisione, una postura letteraria colta, nel ritmo e nel tono una palpabile continuità con la tradizione poetica italiana. Le avventure della quotidianità, l’odissea del lutto percorsa attraverso i piccoli atti dell’abitudine giornaliera, sono infuse di lirica. C’è una “lettera alla madre” come quella di Quasimodo, c’è il Levi dei “sommersi e salvati”, c’è un dialogo insistito con lo spirito del padre che ricorda il Montale di “Voce giunta con le folaghe”. In questa poesia stratificata il linguaggio aulico si mischia a quello familiare, perfino volgare, senza oltrepassare il limite del compiacimento. Anche il tradizionalissimo endecasillabo si asciuga ora in metri più stringati, ora accoglie inserti di lingue straniere o sbanda addirittura nel calligramma. La raffinatezza formale e metrica, peraltro, cede il passo a una sostanza profonda.
La morte del padre non è la fine della storia; semmai, per il figlio, l’inizio di un nuovo rapporto con la morte. “Oh quanto mutato da prima della tua morte/ io sono. Quanto diverso essere il primo/ della fila, invece che il secondo o il terzo”. È tutta del figlio ora la paura della morte, a lui spetta averne cura “per trasmetterla pura ai nostri figli/ come l’abbiamo avuta/ dai nostri genitori”. Serbare pura la morte vuol dire dissimularla, vivere la vita, amare la compagnia e la solitudine, salvare l’amore se anche gli amanti periscono. E fare poesia, suggerisce Giartosio, fosse pure una graziosa bugia. “No, non sta scritto da nessuna parte/ il senso della nostra morte, tranne che in poesia!”
Leonardo Guzzo
«Divertitevi, siate prudenti,» perché stavano per uscire.
Ma non aveva finito di pronunciare questa ammonizione da anziano che un insulto diretto al cuore venne avanti. Gli strattonò il respiro, lo lasciò a tossicchiare come un uomo che chiede d’essere ascoltato, poi lo ripigliò, lo scosse tutto come scrolli un ragazzo impudente che ha parlato senza pensare e lo lasciò cadere piano sul divano ora estraneo tra i figli trascurabili, a viversi ancora un’infanzia di pesciolino fuor d’acqua, sobbalzante, imbarazzante, infine perse interesse a quella larva mutacica e la ributtò nel grembo marino di una moglie ormai a fine mandato (bocca a bocca cercava ancora di insegnargli l’ultima parola, ma riusciva solo a baciarlo) per tornare a rannicchiarsi nel futuro di ciascuno, che tutti possono sempre immaginare finché non viene o dopo che è passato.
La morte, a vederla in azione, era pericolosa e noiosa; lui l’avrebbe sconsigliata.
Ah quanto mutato da prima della tua morte
io sono. Quanto diverso essere il primo
della fila, invece che il secondo o il terzo.
Prima avere le tue spalle dietro cui ridere –
poi essere all’improvviso tutto spalle,
una muraglia di corpo, una diga pronta.
«Vengo sul far del giorno ma non sono
un sogno. Viaggio d’alba in alba come
Ulisse d’isola in isola; e quando
ti scuoto piano, trascrivi il mio nome
sulla sabbia del sonno. Sono qui,
mi dici poi. Rispondo: Non è vero,
sei giú con gli altri, giú nel mondo vero,
nel mondo bello, tocchi con la lingua
sul fondo del palato un mio capello».
I sogni
I.
Vivo di fantasia, muoio di nebbia
quando mi guardi e nel tuo sguardo sembra
che io ci sia, piú forte di una cosa,
piú vicino di verità e menzogna
nella vita nascosta dolorosa.
Per non morire vivo nei miei sogni,
dipinto sui fondali che mi fingo:
quello che non mi hai dato e non mi togli.
Vivo questa mia vita falsa e varia.
Non la tua verità, non la tua morte:
ma la vita di tutti, immaginaria.
II.
Piano, punto dall’ozio, fai ritorno
nella mia mente bruna…
… a ricordarmi
che tu ricordi, a dirmi che mi vedi
ancora…
…galleggiare
nell’ansia, mormorare…
Era mattina, i sogni erano già
vecchi, la verità pareva storia.
Continuiamo a parlare del dolore,
un dolore infarinato di noia
che un ragazzo vecchio prova ancora
per il padre normalmente morto,
per la normalità della morte,
per questa normalità, vera morte,
e continuiamo a continuare a parlarne
senza avere paura di ripeterci.
Tutto il resto è stato già detto.
E del padre, del padre perduto,
quello che si è perduto era già stato
perduto molto prima, molto prima:
anche le ultime parole famose
pronunciate anni prima di morire
senza che le riconoscesse nessuno,
le preziose parole, dilapidate
per il passaggio dei coperti a tavola
o l’intimazione di una scorciatoia
alla schiena inarcata del tassista.
Oggi il dolore non c’entra con lui.
È solo paura per la propria morte,
che possa mai smarrirsi o farsi male,
la nostra morte cosí tenera, fragile,
di cui dobbiamo prenderci cura
per trasmetterla pura ai nostri figli
come l’abbiamo avuta
dai nostri genitori.