Ciò che si dovrebbe, un respiro senza affanno – Mara Venuto

 
 
 
 
Non c’è verso che possa unirmi alla città
in sillabe che finiscono. Inutile esercizio
le poche parole della mia vigliaccheria,
incapaci a dire ciò che si dovrebbe,
un respiro senza affanno. Mi ricordo
quando all’alba tornavamo al porto,
vagoni con l’innesto di acciaio al corpo della madre.
Le rotaie della ferrovia le vedevamo dall’alto,
braccia e gambe torte, le membra di un’anima
che vanno staccandosi. Anni ci sono dovuti
per sentirci interi, e non eravamo più noi,
eravamo altri.
 
 
 
 
 
 
Dimentichiamo i muri rotti, le ferite della città,
i capelli d’erba che nessuno ha strappato dai buchi,
le croste sui moli, l’acqua salata
una disinfezione dei viventi.
 
Dimentichiamo i cieli lividi la sera
la luce delle meccaniche umane i lampioni
e la pallida sicurezza, un pugno di ore al riparo
dal sole calmo e ingannevole.
 
 
 
 
 
 
Bruciamo di scirocco
col sale a coprire la bocca.
Cambierà il vento e parleremo,
avremo pietà della terra lontana
sotto il peso delle correnti. Sarà possibile
confessare tutto alle pareti dello stomaco
un recinto senza risurrezione e senza misericordia.
Saremo solo noi,
le più cupe casse di risonanza
che la vita ricordi, a non darci scuse
nonostante le ragioni confondano gli occhi.
Verrà a torturarci le dita una spina
presa chissà dove, un corpo estraneo
un ricordo.
 
(Mara Venuto, inediti)
 
 

Questi testi di Mara Venuto tratteggiano una irrequieta volontà di pacificarsi all’ambiente urbano, prima, e naturale, poi: in tale attitudine inquieta è possibile leggere la trasfigurazione di un conflitto interiore, che passa dal rapporto con l’altro da sé, con il passato, con l’immagine di sé, con le aspettative future. La parola, in questo contesto, mostra la percezione del proprio limite e una tensione a farsi intermediaria di un senso di insufficienza, di inadeguatezza, che si traduce in una frammentazione, che parte dalla propria consapevolezza, per estendersi a tutto il mondo circostante, vivido, nel proprio presente, passato e futuro.

Dal primo testo immediatamente si dichiara che nessun verso può “unirmi alla città”, risolvendosi in un “inutile esercizio” che evidenzia “vigliaccheria”, incapacità di “dire ciò che si dovrebbe”, un “respiro senza affanno”; dal presente la scena si sposta in una mitografia del ricordo (“quando all’alba tornavamo al porto … membra di un’anima / che vanno staccandosi”): dopo aver individuato nel passato l’inizio del senso di dispersione, la proiezione della visione tende al futuro, agli anni “che ci sono dovuti” per riuscire finalmente a “sentirsi interi”, riscoprendosi in un altro sé, scoprendo che “eravamo altri”. L’io che saremo è già “altro da sé”, “un altro”, e riuscire a percepirne la possibilità è già accoglienza positiva e rinuncia all’inquietudine del presente.

Ed ecco che i versi invitano a dimenticare “i muri rotti, le ferite della città … i lampioni”: l’ambiente urbano, come anticipato, è trasfigurazione della “luce delle meccaniche umane”. Lo stesso meccanismo avviene con i dettagli naturali: “i capelli d’erba … le croste sui moli, l’acqua salata … i cieli lividi la sera” richiamano la “disinfezione dei viventi … la pallida sicurezza, un pugno di ore al riparo”. E tutto questo si invita a dimenticare, perché la calma del sole è “ingannevole”, nel suo mostrare ognuno di questi dettagli così come appare: è necessario leggere al di là delle apparenze, dunque, per superare questa specie di tensione irrequieta del presente.

Quando, bruciando “di scirocco”, infine, il sale coprirà “la bocca”, nascerà una parola nuova, “cambierà il vento e parleremo”, conservando un senso di pietosa tenerezza per quel passato (che, nuovamente, si trasforma in una “terra lontana / sotto il peso delle correnti”). Tale possibilità viene tratteggiata come prospettiva di autentico esistere (“saremo solo noi … a non darci scuse”), e questo percorso sembra passare necessariamente attraverso uno scrupoloso vaglio critico nei confronti della razionalità (“nonostante le ragioni confondano”).

Nonostante ciò Mara Venuto, memore della celebre “spina della nostalgia” caproniana, ci evidenzia che, anche in tale stato di serenità con il mondo, l’ambiente, l’altro da sé, il proprio essere nel mondo e in relazione, “verrà a torturarci le dita una spina / presa chissà dove”, quello che ormai sembrerà “un corpo estraneo / un ricordo”.

Questo non può che significare che anche il più grande cambiamento, che ci rende in qualche modo persino estranei al nostro presente e alla nostra storia, non abbandona mai davvero “la memoria, il messaggio” (citando Mario Ramous) che ci ha consentito di rivoluzionare la nostra vita e la nostra percezione del mondo, nonostante gli stessi versi sembrino invitare alla dimenticanza di quegli attimi e di quei ricordi: in qualche modo, inevitabilmente, dimenticare è commemorare.

Mario Famularo