Chi ha fatto il turno di notte – Izet Sarajlić

Izet Sarajlić, Chi ha fatto il turno di notte (Einaudi, 2012)

  

“Non abbiate fretta, ragazzi / Non abbiate fretta di fare i poeti, ragazzi. / Restate quanto più a lungo possibile nella fase prepoetica. / Essere poeti nella vita non è lo stesso che essere poeti in un racconto. / La poesia, sono le disfatte. / Alla fine, vi aspettano, forse, davvero le rose, / ma per molto tempo – a destra e a sinistra – ci sono le spine. / Per la fama non abbiate fretta, restate invece giovani quanto più a lungo, / e solo quando non ne potrete più, proprio allora nascerà la poesia” (1964). Così il già grande poeta bosniaco, che degli affetti quotidiani, in primis l’amore, un amore idealizzato, cantò nell’oscurità di Sarajevo in guerra: “Magari fosse ancora quel terribile, / quel tante volte maledetto anno 1993 // Avrei ancora cinque anni pieni / da poterti guardare / e da tenerti per mano!”.

Izet Sarajlić scriveva nelle Lettere fraterne a Erri De Luca “Chi ha fatto il turno di notte per impedire l’arresto del cuore del mondo? Noi, i poeti”. Nella Sarajevo degli anni Novanta, i cittadini, ricorda il nostro Erri De Luca, andavano alle serate di poesia in una città al buio: “Sperimentavano che in una guerra – scrive Erri De Luca nella prefazione a Chi ha fatto il turno di notte, Einaudi, 2012, che raccoglie testi di diverse opere pubblicate negli anni ‘90 – solo i versi sono capaci di correggere a forza di sillabe miracolose il tempo sincopato dei singhiozzi, il ragtime delle granate, l’occhio di un mirino addosso. I versi portano la responsabilità della parola ammutolita. I poeti leggevano o dicevano a memoria il loro canto da una città assediata”.

Izet ha vissuto sulla propria pelle due guerre. Nel secondo conflitto mondiale perse il fratello maggiore Eso, fucilato nel ’43. Amava l’Italia e qui da amici cantava “Non ti potrò scordare piemontesina bella”, oppure la russa “Oci ciornie”, occhi neri: “Quanto vi amo, quanto vi temo”. Amava Alfonso Gatto e Nazim Hikmet. Ed era popolarissimo.

L’amata moglie morì nel 1997: “Quei due abbracciati sulla riva del Reno potevamo essere noi due. Ma noi non passeggeremo mai più su nessuna riva abbracciati. Vieni, passeggiamo almeno in questa poesia”. E poi perse anche la sorella: sopravvissuto a se stesso, il grande poeta morirà a 72 anni nel 2002.  Perdipiù benché tanto amato, nel dilagare dei vari revisionismi, fu anche “scomunicato” per scarsa appartenenza nazionale, ricorda Silvio Ferrari, curatore del volume, dopo cinquant’anni di versi quotidiani.

Anafore e ironia ed emotività tra amore e morte, amore e guerra, in una poesia fitta di nomi e di riferimenti culturali, è stato amato da Enzensberger, Broddskij, Simić. L’originale slavo in lui è musicale. Le poesie sono una più bella dell’altra.

Pensate alla semplice/difficile bellezza di questa nel 1950 (a vent’anni): “Già ad alta voce ti recitavano i miei crepuscoli. / Già niente nella mia vita era tanto importante come te. / Già tutto attorno a me era solo una parte del mio totale mito di te. / Già nessun viale dov’eri passata poteva più chiamarsi solo viale. / Già tutto sapeva che saresti venuta, col cielo/ i selciati già scommettevano per la vita sulla tua presenza. / L’avvenire aveva mille nomi e solo l’ultimo era solitudine. / L’avvenire già imitava i tuoi movimenti e il tuo modo di camminare”.

E poi: (1968) “È solo dal romanticismo che non riesco a guarire. / Ecco, fintanto che il vento non disperde le nuvole gonfie, / io non riesco in alcun modo a occuparmi di qualcosa di concreto, / io guardo – le rondini”.

In Italia, prima di Chi ha fatto il turno di notte sono usciti Il libro degli addii 1996; 30 febbraio 1999; Qualcuno ha suonato 2001; Un’altra volta saprei 2004; e il carteggio con Erri De Luca, Lettere fraterne, 2007.

 

Pierangela Rossi