Chi è il poeta?


 

Non tutti possono essere poeti. Questa è la convinzione degli uomini nel mondo antico. Il poeta è un prescelto da dio, come un profeta o un sacerdote. Poeta-vate non è un epiteto d’effetto, un vezzo o la pretesa di alcuni originali autori dell’età contemporanea. E il binomio poeta/ Dio non è un qualcosa di cui possiamo ricordarci solo quando pensiamo a Virgilio, considerato un profeta per tutto il Medio-Evo, e a Dante Alighieri, per il suo progetto di realizzare il disegno del mondo ultraterreno; il poeta è sempre la voce di Dio, di un dio, o delle Muse, come sostengono di sé i poeti dell’età classica, del mondo greco, in particolare, che orgogliosamente rivendicano la propria condizione nei proemi delle loro opere.

 

Non è il comporre versi a rendere un uomo tale, non è la sua dichiarazione d’intenti  o la sua intenzione di scrivere poesia a bastare. Il poeta è, letteralmente, in preda ad una presenza altra; è un uomo posseduto da un dio  che decide di servirsene, dopo avergli rubato la voce e  sottratto il senno. Finché l’uomo è padrone di sé, resta lucido e cosciente, non può essere un poeta. Non potrà, soprattutto, agire come la pietra “che Euripide chiamò Magnetide, e  i più Eraclea. E infatti questa pietra non solo attrae gli anelli stessi di ferro, ma anche immette negli anelli una capacità tale che a loro volta possono fare questa stessa cosa che fa la pietra, cioè attrarre altri anelli, tanto che talvolta ne risulta una catena molto lunga di pezzi di ferro e di anelli che pendono gli uni dagli altri: e a tutti questi da quella pietra si applica la capacità. E così anche la Musa rende ispirati lei stessa, ma attraverso questi ispirati si forma una catena di altri invasati. Infatti tutti i buoni poeti dei versi epici non in seguito ad abilità acquisita, ma essendo ispirati e posseduti dalla divinità pronunciano tutte queste belle composizioni”; e così vie, per ogni genere poetico (Pl. Ion. 533d). Come un magnete, quindi, che, ricevendo l’attrazione da una principale fonte energetica, finisce per cederne a sua volta a tutti coloro ai quali si avvicini, relazionandosi e attivando un flusso di energia sensoriale ed emozionale inarrestabile, così il poeta viene posseduto dal divino e lo spirito che lo attraversa, passa da lui ai rapsodi, che nel mondo antico sono i cantori dei testi poetici, nonché gli interpreti, anelli intermedi di una catena che termina negli spettatori, e che si propaga come un’onda da dio all’uomo.

 

Esattamente così pensava al poeta il Socrate protagonista del dialogo filosofico Ione: In questo testo, risalente alla metà del V secolo a. C., Platone, ripercorrendo e narrando quelli che presenta come gli insegnamenti del suo maestro, dà, infatti, voce ad una interessante conversazione a due tra lui e il rapsodo Ione. Il ragionamento attraverso cui Socrate, tramite il processo noto come maieutica – ossia la capacità di rendere semplicemente fruibile ed evidente all’interlocutore una verità che il filosofo non produce, ma che è già nell’uomo in una sua fase latente-, si sviluppa grazie ad un dialogo serrato, alla conclusione del quale il rapsodo Ione, esperto cantore e interprete dei testi omerici, si vede costretto ad ammettere, circa la propria abilità, che essa non sia il frutto di una propria competenza, quanto piuttosto la conseguenza di una stato di ἐνθουσιασμός (enthusiasmós), e cioè la “presenza del divino in sé”. E ammette, inoltre, di essere realmente “fuori di sé –  o privo di senno -” nel momento in cui afferma che, effettivamente, durante la performance con cui dà suono e voce, di volta in volta, all’opera che rappresenta, si turba profondamente e rivive le stesse emozioni che caratterizzano i personaggi o le situazioni che anima per il suo pubblico: “Perché io tutte le volte che recito qualcosa di compassionevole, i miei occhi si riempiono di lacrime; e quando qualcosa di pauroso o tremendo, i capelli stanno ritti per il terrore e il cuore palpita” (Pl. Ion. 535d). SO. “E dunque? Diciamo, o Ione, che allora è padrone di sé quest’uomo, che, adorno di una veste variopinta e di corone d’oro, piange nei sacrifici e nelle feste non avendo perduto niente di essi, o ha paura stando davanti a più di ventimila persone amiche, mentre nessuno lo spoglia né gli fa del male? IO. No, per Zeus, no certo, o Socrate, per dire proprio la verità. SO. Tu sai dunque che voi provocate questi stessi effetti sulla maggior parte degli spettatori? IO. E lo so molto bene”. Una sorta di delirio collettivo, una follia contagiosa: quello che l’arte poetica determina nei suoi creatori, nei suoi interpreti e, per finire, nel suo pubblico, è un’ abdicare alla ragione. Un rinunciare al senno, per vivere una dimensione emozionale e fantastica che sarebbe, altrimenti, impossibile da sperimentare.

 

Ma le definizioni e le convinzioni sono tutte figlie del proprio tempo, come tali destinate a mille mutazioni e contraddizioni, se non fosse che, talvolta, nonostante tutto, qualcosa rimane: “La poesia non è un senso ma uno stato, non un capire ma un essere.” A scriverlo, questa volta,  è Cesare Pavese riflettendo sull’impossibilità sua di prescindervi, o sulla necessità di soggiacervi.

Olga Cirillo