Che questo mondo venga distrutto, che questa razza umana perisca – Carlo Bordini

Carlo Bordini

Foto di Dino Ignani

 
 
 
 

[…] Nel marzo del 2001 iniziò l’epidemia di encefalopatia spongiforme bovina, nota comunemente col termine di mucca pazza. Rimasi talmente colpito dalla strage di animali con cui si reagì a questa epidemia, quasi innocua per l’uomo, e dalla leggerezza con cui se ne parlava, che decisi di scrivere un poemetto formato da brani di articoli di giornali in cui alla parola “capi” (con cui ipocritamente sono nominati gli animali da macello) fosse sostituita la parola “schiavi”. […] Alcuni mesi più tardi, nel luglio dello stesso anno, si tenne a Genova la manifestazione contro la riunione del G8, culminata, come si sa, con la repressione violentissima. (Partecipai a quella manifestazione.) Successivamente, ero talmente pieno di odio impotente, che, non potendo fare altro, decisi di rendere pubblica la profezia segreta del MIT che un mio amico mi aveva fatto conoscere. Era una maledizione che volevo lanciare. Era come dire: “Io so che voi morirete”. Ed era anche, forse, un desiderio di scomparire, di abbandonare questo mondo, come in una sorta di eutanasia o di suicidio. Utilizzai i ritagli di giornale che avevo conservato sulla mucca pazza per la prima parte di questa poesia. Mi sembrava che i due temi coincidessero perfettamente. Non c’è altro da dire. […]

 

(dall’introduzione dell’autore a Epidemia)

 
 
 
 

Brescia. Sono morti “innocenti” i 117 schiavi dell’allevamento di Pontevico abbattuti la settimana scorsa su ordine dell’autorità sanitaria, dopo che un loro compagno di stalla, l’ormai famoso “schiavo 103” era risultato positivo al test. La decisione di sopprimere l’intera mandria era stata impugnata dalla famiglia Greci, titolare dell’allevamento, ma era stata confermata dal Tar. Ieri, però, il capo dell’Istituto Zooprofilattico di Brescia ha reso noti gli esiti degli esami compiuti sui resti dei 117 schiavi macellati, rivelando che nessuno degli schiavi abbattuti era ammalato del morbo.

Il ministro dell’agricoltura Nick Brown ha spiegato cosa si intende per “abbattimento sulla base di sospetti”: tutti gli schiavi che si trovano in un raggio di tre chilometri dai siti ove l’infezione è stata riscontrata saranno inceneriti. La campagna di abbattimento, cui collaboreranno anche le forze armate, ha ricevuto anche il beneplacito della categoria degli allevatori, che ha espresso il suo sostegno per questi provvedimenti, definiti terribili quanto necessari.

I primi test sono negativi, ma in attesa di quelli definitivi – arriveranno martedì – sono stati abbattuti e bruciati i 320 schiavi della fattoria, e la zona intorno è stata dichiarata off limits per un raggio di 20 chilometri.

 
 
 
 
Diversi anni fa il mio amico Beppe Sebaste raccontò a me e a
Giorgio Messori di aver conosciuto un
astrofisico. Questo astrofisico gli disse che il MIT
(Massachussets Institute of Tecnology)
invia da diversi anni una serie di messaggi radio nell’universo.
Dall’esito di questi messaggi [(credo ma non sono sicuro dalla mancanza di
risposte)] e basandosi su una serie di calcoli di matematica aleatoria, il MIT è giunto
alla conclusione che ogni civiltà
quando raggiunge la capacità tecnica di autodistruggersi,
lo fa.
 
E questo è il caso
della nostra terra. Siamo nell’epoca
dell’autodistruzione. Questa avrebbe già potuto
avvenire, e in ogni caso potrebbe avvenire in qualsiasi momento, e in
ogni caso il MIT calcolava, all’epoca,
che il periodo di vita residua della nostra civiltà non poteva andare oltre i 50
anni.
Queste cose – diceva l’astrofisico – sono state comunicate
ai capi di governo e i più importanti scienziati
ne sono a conoscenza. Non vengono rese
pubbliche per evitare ondate di panico.
 
E allora, legato a questa idea che se
fossi morto non avrei perso nulla,
due cose fluttuanti che mi attraversavano il cervello: (dopo Genova, appunto)
la siccità, i cambiamenti nel clima, (il crollo delle borse, questa lenta
erosione come un crollo rallentato) mi fa pensare:
questo mondo così non può durare
e poi questi due episodi, la ragazza che sta per suicidarsi e che blocca il
traffico
e gli automobilisti che le gridano: buttati! Buttati!,
perché blocca il traffico,
 
e la nave con 500 persone non accolta
dall’australia, e il 92 per cento degli abitanti che sono
d’accordo, l’intervista a una vecchietta
tipo nuova inghilterra che dice di essere d’accordo, naturalmente
in rapida successione un altro pensiero, oltre che quello che questo mondo
così non
può durare:
che io sono contento che questo mondo venga
distrutto, che questa razza umana
perisca [, “se fossi foco, brucerei lo mondo”]  
(Carlo Bordini, Epidemia, Kipple Officina Libraria, 2015)
 
 

Questi estratti dal poemetto Epidemia di Carlo Bordini, scritti ormai quasi venti anni fa, esercitano una potente suggestione per chi si trova a leggerli proprio oggi, alla luce degli eventi degli ultimi mesi, dell’ultimo anno. Sostanzialmente, l’opera nasce come occasione di denuncia per le condotte derivanti dalla scelleratezza dell’uomo nei confronti della natura, del mondo circostante, dei propri simili, pervenendo a una consapevolezza amara della natura tossica e distruttrice della specie umana, allo stato dei fatti, nonché all’accettazione dell’opportunità della sua scomparsa dal nostro pianeta.

Il poemetto affronta il tema dell’allevamento intensivo, le pratiche di soppressione del bestiame per cercare di arginare il morbo di encefalopatia spongiforme, spesso applicate in maniera preventiva e indiscriminata, senza curarsi particolarmente degli aspetti bioetici legati al fenomeno, legittimati dall’urgenza sociale e sanitaria; è allo stesso tempo occasione per far serpeggiare il dubbio, assolutamente ragionevole, che tale desensibilizzazione verso il mondo naturale e animale non può che essere il preludio di una disumanizzazione verso i nostri simili, verso sé stessi, sintomo terribile di una specie capace solo di distruggere e di autodistruggersi, una volta giunta al vertice del proprio progresso tecnico.

Nell’introduzione viene esplicitato il meccanismo di manipolazione del testo: in alcuni testi dei rotocalchi giornalistici dell’epoca, Bordini sostituisce il lemma “capi” (di bestiame, ça va sans dire) con “schiavi”, per mostrare come il linguaggio riesca a mascherare e mistificare l’orrore della realtà, che appare di diversa portata quando viene avvicinata alla nostra dimensione umana: ecco, ad esempio, la ferocia di espressioni come “i 117 schiavi … abbattuti la settimana scorsa su ordine dell’autorità sanitaria”, “ha reso noti gli esiti degli esami compiuti sui resti dei 117 schiavi macellati”, “tutti gli schiavi che si trovano in un raggio di tre chilometri dai siti ove l’infezione è stata riscontrata saranno inceneriti”. Eppure è stata sostituita solo una parola, nemmeno così lontana dalla verità storica: eppure “la campagna di abbattimento” sembra la distorsione orrorifica di un romanzo distopico.

La seconda parte del poemetto estende la visione alla specie umana, ai suoi limiti e al proprio destino. L’occasione è una “profezia del MIT”, basata su messaggi radio nell’universo e “calcoli di matematica aleatoria”.

Ed ecco la sentenza: “ogni civiltà / quando raggiunge la capacità tecnica di autodistruggersi, / lo fa”.

Da qui la riflessione: “E questo è il caso / della nostra terra. Siamo nell’epoca / dell’autodistruzione.”, e il collegamento a mille eventi inaccettabili della cronaca quotidiana: il G8 di Genova, “la siccità, i cambiamenti nel clima, (il crollo delle borse, questa lenta / erosione come un crollo rallentato”.

Dalle catastrofi su larga scala Bordini passa a quelle microscopiche del quotidiano, quelle relazionali, le più gravi e insopportabili le quali, come si anticipava, incarnano la disumanizzazione tra uomo e uomo, l’assoluta perdita di sensibilità ed empatia reciproca: “la ragazza che sta per suicidarsi e che blocca il traffico / e gli automobilisti che le gridano: buttati! Buttati!, / perché blocca il traffico”.

E l’unica conclusione possibile per l’io del testo, lucido testimone, che sente la profonda distanza da tutto questo: “questo mondo / così non / può durare: / che io sono contento che questo mondo venga / distrutto, che questa razza umana / perisca”.

E a distanza di quasi vent’anni, nonostante una denuncia così feroce – da cui traspare un’intima delusione e una completa amarezza verso una specie che preferisce annientare sé stessa e il proprio mondo, finendo per meritare il rogo di Angiolieri – si vorrebbe poter replicare ai duri versi qui riportati; ma basterebbe sfogliare i rotocalchi delle ultime settimane, dell’ultimo anno (senza scomodare tutti gli altri) per comprenderne la portata annunciatrice e la profonda consapevolezza storica e umana.

Un modo di affrontare la parola poetica, quello di Carlo Bordini, che in questi giorni, dopo la sua recente scomparsa, persiste come profonda eredità su quello che dovrebbe essere il ruolo della poesia e del linguaggio, in un’epoca così sterile e disperata, e soprattutto sull’attitudine, l’impegno e la responsabilità di chi ne fa uso.

Mario Famularo