Case sepolte – Pietro Romano


Case sepolte, Pietro Romano (I Quaderni del Bardo 2020).

 

A quale mondo tornare? Si chiede Pietro Romano nell’ultima illuminante sezione del libro Case sepolte e certamente non è un caso che sia la domanda intorno alla quale ruota tutto il percorso di questo progetto in cui se da una parte è chiaro il debito nei confronti dei maestri (e questo non è mai un male, anzi), dall’altra ci introduce al senso stesso della poesia: la domanda.
Se tutto muta in continuazione, se ciò che ci circonda è parte di un tutto che non ci appartiene, come può la poesia farsi carico di qualcosa che vada oltre la riflessione sull’io?

Case sepolte è un libro fatto di pieni e di vuoti, soprattutto di vuoti. Eppure il vuoto è un elemento su cui riflettere, uno stato di mancanza.

Intraprendere un percorso del genere non è mai semplice: è un percorso che ci trova mutati come mutato diventa anche il senso dell’attesa. Ma non è una complicanza.

Pietro canta la disgregazione attraverso la parola/nido, parola/centro, come se l’autore setacciasse ossessivamente un corpo alla portata di tutti alla ricerca di qualcosa che nessuno vede. La poesia di Case sepolte è anche questo. All’inizio sembra che non ci possa essere salvezza dall’adesione alla disgregazione.

Dal punto di vista strutturale assistiamo a una impostazione del verso che alcuni potrebbero definire prosa poetica ma altro non è che una manifestazione della disgregazione: “mi insegno a fare a meno dei gerundi del vivere e del morire, e/vorrei ancora dire ma non so adesso continuare”.

Si torna sempre cambiati, se si va. Il mondo a cui tornare non sarà mai lo stesso rispetto a quello che avevamo lasciato, soprattutto se abbiamo messo tutto il senso nel cercare: “ma d’improvviso ogni mia colpa è soltanto salvezza”.

Melania Panico

 
 
 
 
Ora esplode la lingua sul palato. Non basta il silenzio: fioriscono
rose senza spine. Tale la voce senza pronuncia, senza fiato. Laggiù
non tiene nome il passato – traccia di un canto parziale
 
 
 
 
 
 
Nella mia testa ogni viso è un viso. Nulla che sia parola. Ogni voce
è smarrita, prende impeto e affiora da chissà quale parte di me
dove soltanto la mia rimane sepolta. Dopo è dimenticare che ogni
cosa smetta la sua illusione; ma l’abisso è allontanarsi, proni a un
morire sempre secondario. «Tempo» chiamate i corpi ammassati
in un vuoto che copia e moltiplica, lingue conficcate nelle orbite,
ogni origine che si ingabbi.
 
 
 
 
 
 
In quattro momenti disgiunti
 
a) Nell’incavo della voce dissecca la distanza d’esserci e non trovarsi.
b) Fatico a dire “casa”: riscrivo, ritrasformo.
c) Nel cappio di luce che stringe ombre ondulate: in un canto distorto, senza fine, la loro eco.
d) A dovere valicare lo stretto del pensiero mi faccio ora valico
                                  [per il pensiero].
 
 
 
 
 
 
Dico gli occhi per radunare in me la forma delle parole: il cuore
è cucito agli orli del silenzio.
     (un dentro risuona nel loro sonno)