Ca so piète pu scarpidde – Antonio Lillo


 

Fra le tante risposte valide alla domanda sul perché, o per chi, si scrivono poesie, vanno comprese senz’altro quelle che le intendono, kafkianamente, come lettere indirizzate a persone che forse non le leggeranno mai, anche se poi le leggerà chiunque altro; in cui si mette a nudo, pubblicamente, un rapporto intimo che per svariati motivi non si riesce a gestire nel privato. È un’estrema sintesi del dramma borghese, in cui ci sono due persone – una che scrive, l’altra coinvolta suo malgrado – che si confessano davanti a un pubblico che fa da giudice. Come già osservava Saba in una delle sue Scorciatoie, più l’opera ha successo e più forte è l’assoluzione del poeta dalla sua negligenza relazionale.

Fra le tante poesie che anch’io ho scritto sperando di essere assolto, quella a cui sono più legato è Petterusse / Pettirosso (da Bestiario Fiorito, Pietre Vive, 2016). Pettirosso, nomignolo che mi dava mio padre quand’ero piccolo, è insieme un atto d’amore intriso di pudore figliale e l’attestazione di un passaggio di consegne. È una poesia a/su mio padre che non gli ho mai letto, né lui sa che ho scritto, non sono mai riuscito a dirgliela per colpa di quell’estrema timidezza e diversità caratteriale che ci contraddistingue. Mio padre, pura forza motrice annerita dal sole, non un uomo di pensiero ma dai mille mestieri, sempre spinto all’azione, eccessivo, rumoroso, amante del vino, facile alla risata, alle battute anche volgari, ma con lo sguardo malinconico, di quella malinconia che è tutta meridionale, degli sconfitti che non la smettono mai di sognare; da giovane ha accarezzato per alcuni anni il sogno di farcela, avviando una sua macelleria, poi la bottega è fallita ed è finito guardalinee in ferrovia. In cuor mio ero contento, non ho mai capito il bello di un lavoro dove si ammazzano altri esseri viventi, ma a quel tempo con una macelleria ci si poteva arricchire e lui sognava l’agiatezza promessagli dal boom economico, invece è finito da padrone di bottega a uomo di fatica in un’azienda, e questo lo ha avvelenato per anni. Tutti i libri che ho letto da bambino me li ha comprati lui e non mia madre, libri che non aveva la voglia, la pazienza o l’interesse di leggere ma di cui riconosceva l’importanza, e che hanno fatto di me ciò che sono.

Petterùsse è scritta nel dialetto del mio paese, cioè nella lingua viva di mio padre – con un lavoro molto raffinato, mi permetto di dirlo, su rime e assonanze, che spesso non viene colto perché molti leggono direttamente il testo in traduzione – a rimarcare un rapporto assai forte sul piano ideale, anche se non sempre pacifico su quello concreto, con le mie origini e la mia terra. Un poeta in un paese del sud è un uomo incatenato a una lingua che spesso non lo riguarda, non ha patria, è un emigrato senza biglietto per la partenza. Ho cominciato a scrivere in dialetto intorno ai trent’anni sulla spinta del poeta Lino Angiuli, intendendo il dialetto come un tentativo di riappropriazione e riaffermazione di una identità personale e meridionale che si esprimesse non solo sul piano politico, ma anche letterario in un paese, l’Italia, dove qualsiasi poeta, ma anche editore, che scelga di restare al sud viene limitato dalla distanza geografica rispetto ai centri di potere editoriale. Molti mi dicono che questa è una fissazione solo mia e di alcuni altri, che non c’è nessuna reale distanza. Io la vivo sulla mia pelle e lo scrivo come testimone di ciò che vedo e sento.

Nel testo si evidenzia questo nesso per me vitale fra poesia e lavoro, nesso che per molti nemmeno sussiste (la poesia non dà pane, quindi è altro), ma è fondamentale se si intende per “lavoro” quel tipo di attività umana e relazionale – più che economica – che ti caratterizza come individuo nel tuo tempo. Si scrive sempre per sé, ma non si è mai poeti per sé, o da sé, si è poeti per gli altri. Così come mio padre spaccava le pietre sulla ferrovia odiando il suo lavoro ma sperando almeno in un mio riscatto sociale, allo stesso modo io lavoro con le parole in questo solco di amore e odio spinto verso una rivoluzione che probabilmente fallirà. Vinceranno i ciucci, e da qui nasce la mia vergogna di non avere abbastanza forza e talento di spaccare il mondo come mi chiedeva lui. E in tal senso sottolineo e chiarisco un verso la cui forza dissacratoria si perde in traduzione: «Chère è “libertà” i chèsse è “capitalismo”». «Chère è “libertà”, quella è “libertà”», da leggere a voce alta puntando la mano di fuori, al di là del muro, verso l’orizzonte; «i chèsse è “capitalismo”, e questa è “capitalismo”», prendendosi i genitali con le mani, in maniera sconcia, perché il capitalismo è questa minchia, questa stretta sui coglioni, e va detto senza mezzi termini, come faceva mio padre.

Per completare il discorso sul lavoro editoriale, metto a confronto con quello un secondo testo, San Valentino agli editori, inedito, che appartiene come datazione, contenuto e sentimento, alla serie di poesie raccolte in Mal di maggio (Samuele, 2022), opera dove ci si interroga su più piani (economico, etico, esistenziale) sulla figura dell’editore in un paesaggio sempre più sconfortante come quello nostrano. La domanda che ci si pone in quel libro è se tutto sommato valga la pena farlo. La risposta che continuo a darmi, pur con molti dubbi e ripensamenti, è che no, non ne vale proprio la pena, ma è comunque un buon modo per ingannare il tempo mentre si aspetta la fine.

Antonio Lillo

 
 
 
 

PETTERÙSSE

 
«A chjéne chjéne, petterùsse!»
lucculève attaneme da riète
ca ji fuscève nnante
i me spascève a chépe sope i piète.
 
Russe pure jidde p’a fatigghje
spasscève i piète pu martidde
sope a ferrovie. «Na jè a stessa cose»
se mbriachéve a sère, «fatejè pe l’olte
pe campè a sciurnète
o acchiarse na fatigghje ca te pièsce».
 
Può pegghiève sunne a chjéne chjéne
sope a banche. Spantève. «Chère è “libertà”
i chèsse è “capitalismo”. Mbàrete,
ca i ciòccere vone nnante, petterùsse,
ma u munne u spascene i paruole».
 
I m’accattève i livre pa fatigghje
pe ffè a revoluzione appirse a jidde.
 
I nna sapève nudde ca na digghje
m’à appeccète mpitte u stèsse fuche
u cante ca na digghje a spascè u munne
pi paruole, ca so piète pu scarpidde.
 
U sacce bbune ji, ca i fatigghje.
 
Nota per la lettura. Come regola di massima, le e non accentate sono mute.
 
 

(PETTIROSSO. «Piano piano, pettirosso!» / Gridava mio padre da dietro / ché io scappavo avanti / a spaccarmi la capa sulle pietre. // Rosso pure lui per il lavoro / spaccava le pietre col martello / sulla ferrovia. «Non è la stessa cosa» / si ubriacava la sera, «lavorare per gli altri / per campar la giornata / o trovarsi una fatica che ti piace». // Poi prendeva sonno piano piano / sulla tavola. Si svegliava di botto. «Quella è “libertà” / e questa è “capitalismo”. Imparalo / che i ciucci vanno avanti, pettirosso, / ma il mondo lo spaccano le parole». // E mi comprava i libri col lavoro / per far la rivoluzione appresso a lui. // E non sapeva nulla che un giorno / mi s’è acceso in petto uguale fuoco / il canto che un giorno spaccherà il mondo / con le parole, che sono pietre da scalpello. // Lo so bene io, che le lavoro.)

 
 
 
 
SAN VALENTINO AGLI EDITORI
 
Alcuni librai m’impongono
di non pubblicare i poeti
se voglio arricchirmi e arricchire
e si scusano quasi di non vendere
ciò che non propongono al lettore
per sfiducia nei miei libri.
 
Alcuni lettori mi confidano
di preferirli morti i poeti
che come il formaggio invecchiano
e più puzzano e più hanno da dire
a chi vive il suo presente
senza storia e senza rime.
 
Alcuni editori mi consigliano fratelli
di non pubblicare i poeti
se davvero voglio mettermi alla pari
nel mondo degli affari
ch’è spietato con chi gira abbaiando
come i cani alla luna.
 
Alcuni editori sono soli.
 
Alcuni poeti mi rinfacciano
di non pubblicare i poeti
che «a noi piacciono» e fanno liste
prescrittive d’incapaci
fuori dalla cerchia degli amici
e dalla rete dei prefetti letterati.
 
Alcuni aspiranti mi intercettano
per farsi pubblicare
ma ignorando le regole del verso
quello che rimane è nostalgia
o la boria dei poeti che sarebbero
se qualcuno li volesse pubblicare.
 
Alcuni editori sono soli.
Qui diluvia.
 
 
 
 
In copertina foto di Massimo Romanazzi