Autopsia (reiterata) – Dario Talarico


Bozza automatica 2988
Autopsia (reiterata), Dario Talarico (Puntoacapo Editore, 2022)

Non gonfiare la parola oltre il limite
della sua crosta. Delimitane il cerchio,
ripuliscine i confini: non è esagerando
che si invera l’infinito

 

Ci trova concordi il critico letterario Alessandro Pertosa nell’elaborata e ampia postfazione a Autopsia (reiterata), il ‘poema logico-filosofico’ congedato per le edizioni di Puntoacapo da Dario Talarico, intellettuale lucidissimo e schivo, colto e dalla rara umiltà: bisogna sgombrare il campo da facili letture o considerazioni su quella che è a tutti gli effetti un’opera complessa e proteiforme, nella quale nulla è dato per sempre pur nel dispiegarsi gnomico del verso. L’anatomopatologo-poeta protagonista di questa dissezione autoptica composta da più parti, introdotta da un prologo e conclusa da un epilogo (speculari nel loro significare l’intero senso del testo), ci chiama in causa, chiama in causa il lettore che si accosta deferente alla pluralità di tematiche enucleate, per condurci all’incrocio tra poesia e filosofia, tra logica e analisi dl testo, superando scontate certezze e raccogliendo la nutrita serie di allegorie che costellano le pagine. Come in un’autopsia siamo di fronte al corpo (della letteratura), a un cadavere da cui promanano raggelanti verità, quelle verità che l’autore sa fornire con palpitante emozione. Evidenti i richiami, gli echi, i rimandi, le ‘influenze’, le persuasioni provenienti da secoli di scrittura, come bene Pertosa illustra e su cui non ritorniamo lasciando a ciascuno il compito/piacere di catturarne la presenza. Ciò che riteniamo più pregnante è l’assoluta capacità di Talarico di plasmare il proprio pensiero assumendo un suo costante indirizzo metrico e stilistico, se per stile intendiamo la congiunzione tra comunicazione e individualità, e concependo il volume come un insieme di molteplici livelli di lettura. Ecco, lo stile in particolare è lampante, immediato, bruciante, incandescente: siamo di fronte a una scrittura di squisita fattura, rielaborata con acume e acribia, lasciata decantare, priva di sbavature. Si viaggia con brevi enunciati, taglienti rivelazioni, accecanti lacerti di frasi, senza il ricorso ad aggettivi che finirebbero per appesantire la narrazione in versi. L’essenziale, come in un esame autoptico, è ciò che emerge o talvolta lo è proprio l’assenza (“ciò che manca alla vita è impossibile a morire”): un’operazione in levare, diremmo se fossimo in campo musicale, una scelta calviniana che raggiunge anche la figura stessa dell’autore, raramente presente sui social se non per fornire primizie di una poesia meditata, scarnificata, sedimentata nel tempo, in grado di raggiungere il cuore, il midollo della vita, il microscopico elemento che si fa macroscopico. L’essere diventa sempre più il contraltare dell’apparire: quest’ultimo assume tanto maggior rilievo quanto più il primo vive di disvalore o perde di significato eppure l’universo, ci dice il poeta romano nel prologo che sussume questa sua intera produzione, è, da sempre, in quel nulla infinito che già Leopardi declamò, al di là e oltre il valore che l’uomo dà a sé stesso dalla Creazione. Nel viaggio ideale attraverso la parola che in Caproni e ancor prima di lui in Lacan veniva definita incapace, impossibilitata a racchiudere il senso di un dire, Talarico non perde mai di vista l’orizzonte della metatestualità per non incagliarsi nell’hic et nunc tipico di molta letteratura autobiografica attuale. “Se non sai cosa dire, evita di sapere come dirlo” asserisce in un verso: è tranchant, un acuminato sguardo sui territori poetico-filosofici che riguarda tutti, obnubilati dalla peste del linguaggio, dalla bulimia delle parole. Ci viene così consegnato con Autopsia (reiterata) ben oltre e ben altro che un poema: e se ci è concesso ‘fraintendere’ in funzione ermeneutica, come efficacemente richiama in una sua recente intervista, ebbene crediamo che sia lecito sentenziare come quest’opera sia acqua sorgiva, aria pura in tempo di inquinamento linguistico, saporito alimento a fronte della monumentale insipienza di pietanze troppo spesso servite sul desco della scrittura. L’uomo, l’essere senziente/cosciente per antonomasia, deve ripiegare le bandiere omertose del potere e della fama, ricucendo quella tela con l’universo, sfilacciata e slabbrata dal suo progresso malvagio. Sia conscio, è un insegnamento che traiamo da questa ‘autopsia’, della sua finitudine, della sua piccolezza, del relativismo. Occorre “disidratare il tempo, asciugare il silenzio” per ricomporre a unità il puzzle scomposto degli elementi: “La frase è un refuso del bianco” leggiamo ancora, sentenziosa concezione che costantemente troviamo emanata e applicata in ogni contesto. Raccogliere le plurime e plurali voci che il testo di Talarico rielabora e offre può servire a creare nuova linfa nel tessuto letterario che ci abita e forse a illuminare un poco la strada che il tempo ci pone dinnanzi, in ciò confortati da quanto sostiene Ferdinando Camon per il quale “scrivere è più di vivere”.

Federico Migliorati

 
 
 
 
Non astro, non baratro:
essere piccoli per il mondo,
– questa – è la salvezza.
 
 
 
 
 
 
Non auspicare a nessun pensiero
di essere niente di più di qualcosa
di vero. Non c’è margine d’inciampo:
ciò che si affaccia al vero non è
abbastanza , ciò che oltrepassa il vero –
è già falso.
 
 
 
 
 
 
Non esistono turisti della verità.
Quando tu cerchi la verità, la verità non c’è.
Quando trovi la verità, tu non ci sei