Àndito – Maurizio Landini

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Un libro all’apparenza molto semplice, chiaro, questo Àndito di Maurizio Landini (Transeuropa 2015). In realtà un libro delicato e coraggioso che sa affrontare uno dei temi più complessi e antichi dell’esistenza umana: la vita.

L’àndito, termine che dà titolo alla raccolta, è infatti un corridoio, un passaggio stretto e angusto. È un momento del stare spesso non facile, potremmo quasi dire uterino se non fosse che anche nelle diverse esperienze di premorte le persone indicano la presenza di una luce al di là del tunnel, dell’àndito in cui si trovano (che di fatto è ancora il mondo umano). E non a caso uno degli elementi maggiormente ricorrenti, se non preponderanti tanto da divenire caratterizzanti l’opera stessa, è proprio la luce. Una luce che però non si risolve nella sua sola esistenza chiara e luminosa ma diviene anche l’occhio che la partecipa e che la sente (alla stregua della parola che non è l’acqua del fiume ma il suo stesso fluire).

Una luce che ha come testimone il buio. Un testimone positivo, fecondo (La pianta notturna che sale / fra le tue gambe fiorisce / piano), che in qualche modo attende la nascita del giorno e del suo viaggio (notte d’organza: inciderò / queste parole nel ferro / molle del giorno come / il sole accende i gioielli / nei vagoni al mattino). Un viaggio che ha una sua nascita dichiarata, una sua alba, un suo venire al mondo, e poi un suo percorso che è chiarità, luce, e poi fine, morte.

Ma è proprio quest’ultimo aspetto, la morte, nello specifico del padre, che risolve e restituisce la profondità dell’opera. Come un carcere è il sogno / dove per un tempo che è / breve ho potuto / incontrarti: una visita / priva di suoni e di certezze / su chi fra noi sia il detenuto. Perchè la luce può essere ciò che sta al di là dell’àndito uterino, dell’àndito post-mortem, dell’àndito del giorno. Ma può essere anche (e questo ce lo confessa Landini stesso) la luce che filtra dalla finestrella della prigione della vita, della giornata. Nell’abissale domanda, di fronte alla morte del padre (almeno questo lascia intendere l’autore), su chi sia veramente il detenuto.

Un libro essenziale che misura le parole con la pacata semplicità di chi ha una grande ispirazione, e le giuste domande. Dove il senso preponderante della vista diviene non solamente bussola ma metro di misura dell’esistente e dell’assente. Una vista che è corpo, che è sentire, che è compartecipazione alla cosa osservata. Che è un universale segnarmi di cenere la fronte a dichiarare l’assoluta compartecipazione (si scusi la ripetizione ma considero tale termine fondamentale per comprendere Landini) all’esistenza, alla parola, alla vita stessa in ciò che è e in ciò che resta.

 
 
 
 
 
 
La parola che mi circonda
è un fiume che non è acqua
ma il suo stesso fluire.
 
 
 
 
 
 
In questo scorrere
io mi stringo. I palmi
sui muri accaldati
la sera. Un sole che
 
ho seguito paziente
in un chiodo di luce;
cuociono i legni verdi
da queste persiane.
 
 
 
 
 
 
Dorme la città, miniata
in un fondo immoto: come
un mare il sopore la scava
 
nello sciacquio spettrale
che imbambola ogni pietra
ogni ombra umana.
 
 
 
 
 
 
Sul mio viso, il rito
del tamburo solare; su ali
di corda, il ritmo candido
 
del volo: solo la gioia
di un cieco può danzare
in queste lamine di vento.
 
 
 
 
 
 
Tenersi muti al lume tórbo
dell’Emilia, gracili e smarriti
in un risveglio incerto.
 
Lasciarsi guidare dal piede orbo
del cielo in questa buca
d’inverno.
 
 
 
 
 
 
La pianta notturna che sale
fra le tue gambe fiorisce
piano.
 
 
 
 
 
 
Ho parlato alle tue dita
di betulla pregando per
un esilio del freddo.
Ho parlato al tramonto
lanoso dei cantieri, alla
 
notte d’organza: inciderò
queste parole nel ferro
molle del giorno come
il sole accende i gioielli
nei vagoni al mattino.
 
 
 
 
 
 
Non ricordare chi fosti
ieri, nell’attimo dei corpi
come l’afonia di un giorno
prematuro tra i flauti del
 
buio: sotto le unghie
dei muri l’aurora sporca
ti chiamava a sé mentre
ridevi nel sonno.
 
 
 
 
 
 
Bisogna digerire un padre
intero, farsi la bocca a bruciare
l’erba e pregare la cenere.
 
 
 
 
 
 
Padre di cenere, caduto
presto come un giorno
di sole novembrino sul
fondo di cobalto, di te
 
rivedo il porto e gli occhi
chiari; intorno, la pelle
di brace estiva. Caduto,
il giorno la città bruniva.
 
 
 
 
 
 
Come un carcere è il sogno
dove per un tempo che è
breve ho potuto
 
incontrarti: una visita
priva di suoni e di certezze
su chi fra noi sia il detenuto.