Amelia Rosselli

Amelia Rosselli

foto di Dino Ignani

 
 

Nell’edizione SE del 1985/2010, le sperimentazioni di Amelia Rosselli (Parigi 1930-Roma 1996) emergono tutte. C’è La libellula dedicata alla libertà, del 1958, cui segue tra il ’63 e il ’65, Serie ospedaliera, di cui pubblichiamo alcuni spunti.

Su Amelia Rosselli c’è una pagina wikipedia su cui informarsi. Scrisse nel ’63 Pier Paolo Pasolini: “… In realtà questa lingua è dominata da qualcosa di meccanico: emulsione che prende forma per suo conto, imposseduta, come si ha l’impressione che succeda per gli esperimenti di laboratorio più terribili, tumori, scoppi atomici, dominati solo scientificamente, ma non nei sintomi della terribilità, in quel loro accadere ormai oggettivo. Sicché il magma – la terribilità – è fissato in forme strofiche tanto più chiuse e assolute quanto più arbitrarie. Direi che non mi sono mai imbattuto, in questi anni, in un prodotto del genere, così potentemente amorfo, così oggettivamente superbo”. Seguono altri testi, a disegnare un profilo quanto mai fedele alla sperimentatrice.

Qui di seguito, alcuni versi da Serie ospedaliera. Nel volume anche scritti autobiografici e approfondite interviste. Resta, secondo wikipedia, un interrogativo: Rosselli come Plath?

Pierangela Rossi

 
 
 
 
                      Le tue acquarelle scomponevano la mia mente
loquace per l’invernizio. Con lo scompiglio della
primavera, nave in tormenta, io scalinavo ancòra
per le giostre colorate con astuzia: il tuo il mio
tesoro affogato. Il pennello dolcemente vibrava
nella modestia di un tugurio scomposto per l’inverno
che fu una crudeltà continua, un tuo dormire nascosto
dalle mie preghiere, uno scostarsi dalla ferrovia
che spesso invece s’accostava al mio capo, reclino
quando v’era luce.
 
              E la luce scomponendosi in parti eguali evolse
economiche colorazioni sulla carta del ferroviere.
 
              Pallido, estenuato, iracondo, stornavi rondinelle
mentre io dipingevo egualmente innamorata della
natura e del mio bisogno.
 
 
 
 
 
 
La vita è un largo esperimento per alcuni, troppo
vuota la terra il buco nelle sue ginocchia,
trafiggere lance e persuasi aneddoti, ti semino
mondo che cingi le braccia per l’alloro. Sebbene
troppo largo il mistero dei tuoi occhi lugubri
sebbene troppo falso il chiedere in ginocchio
vorrei con un’ansia più viva ridirti: semina
le piante nella mia anima (un tranello), che
non posso più muovere le ginocchia pieghe. Troppo
nel sole la vita che si spegne, troppo nell’ombra
il gomitolo che portava alla capanna, un mare
gonfio delle tue palpebre.
 
 
 
 
 
 
Se vuoi, se puoi, riaccendere la miccia
terribilmente fredda (cotone idrofilo nel cielo
ancòra una perla) benché rattristi, puntare al cielo
le mani piene di fango.
 
Tentare una soluzione: anche se è soltanto la morte
indivisa dal tuo sorgere, sole.
 
 
 
 
 
 
Inesplicabile o esemplare
generosa e trita ti concedi qualche piccolo
ritorno alle abitudini.
 
La lingua scuote nella sua bocca, uno sbatter d’ale
che è linguaggio.
Sentì bisogno allora di innalzare, piramidi alla
verità (o il suo mettersi in moto).