Il mito di Afrodite, per i Romani Venere, si presenta multiforme e sfaccettato. Afrodite è la derivazione della dea babilonese Isthar, o Astarte, protettrice sia dell’amore che della guerra. Se vogliamo, anche l’innamoramento e una guerra dei sensi che sconvolge, riportando la vittoria, almeno momentanea, sulle altre passioni. È “Il pensiero dominante” scrive Leopardi nei “Canti“, “Dolcissimo, possente / dominator di mia profonda mente; / terribile, ma caro / dono del ciel“. Siamo di fronte a uno stato di totalità, pervasivo. Così deve essere in quanto la dea rappresenta la Grande Madre di cui si è occupato estesamente Robert Graves nel suo saggio “La dea bianca”, progenitrice e precedente ogni culto della società patriarcale.
Assume diversi nomi, Iside presso gli Egiziani, capace perfino di ricomporre e resuscitare Osiride smembrato dal fratello Seth. Ishtar è l’antica Inanna, divinità sumera di cui scriverò a parte, perché davvero merita un approfondimento.
Guardiamo da vicino i due aspetti della dea, Afrodite Urania e Afrodite Pandemia, del popolo, energia ctonia. Sono trattati in due diversi miti, tra loro complementari. La prima è sublimazione della seconda, elevata all’armonia, alla bellezza e alla poesia delle forme, al sentimento di comunione e al superamento di gelosia e possessività. Afrodite Urania, secondo Esiodo (“Teogonia” (176-206), nasce dalla schiuma (afrore) del mare, formatasi dallo sperma dei genitali precipitati del dio cielo, Urano, evirato dal figlio Kronos. “Logos spermatikos” era un’espressione tipica degli stoici per descrivere le “ragioni seminali” che generano il mondo. Tale caratteristica spiega perché Afrodite, Venere, per sua natura non possa essere sposa e compagna fedele a un solo uomo. Incarna il moto e l’energia universale, donata a profusione; è Shakti, la sposa di Shiva dell’Induismo. Senza Shakti, Shiva è un cadavere. Ugualmente possiamo dirci noi se la fiamma del desiderio, l’entusiasmo ci abbandona. Così dolce e così innocente, Venere Urania sopra la conchiglia è l’incantevole fanciulla dipinta da Botticelli, priva di tratti lascivi.
Nell’altro mito, contenuto in Omero (“Iliade” V, 370), Afrodite è figlia di Zeus e della ninfa Dione; rappresenta la forza della natura vivificata dal maschile, l’istinto riproduttivo nella sua potenza, privo di elaborazione psichica. Platone nel “Simposio” distingue nettamente i due aspetti, privilegiando la divinità celeste, ma non trascura l’attrazione e la seduzione esercitata dai corpi belli, da cui tutto deriva, anche il Sommo Bene.
Come sappiamo, Afrodite ciprigna (nata a Cipro) è data in sposa a Vulcano, dio degli inferi fabbricante di armi. Si innamora di Ares, Marte, il focoso guerriero nato per combattere. I suoi impulsi mutano nell’incontro con il bellissimo Adone, il giovane cacciatore sulla cui nascita esistono diversi mitologemi. Ciò che più importa sottolineare è che Adone è giovanissimo, non sono le sue gesta eroiche ad attrarre la dea ma lo splendore fisico, sempre simbolo di perfezione globale. Adone sarà conteso tra Afrodite e Persefone. Secondo il decreto di Zeus, vivrà per metà dell’anno nell’Ade con la regina dell’aldilà (viene dunque da profondità inconsce), per la restante metà sulla terra, compagno di Afrodite, che per lui dimentica l’Olimpo. Ares adirato si camuffa da cinghiale e uccide il ragazzo, addentandolo all’inguine. Dalle lacrime inconsolabili della dea nasce la rosa con le spine, mentre dal profumo sparso sul corpo dell’amato spunta l’anemone.
“Dal letame nascono i fior” canta Fabrizio de André. Per letame possiamo intendere le scorie dei nostri mali, come pure il dolore trasmutato.
Afrodite si unisce anche ad Hermes, Mercurio, l’intelletto, generando l’ermafrodito, fusione tra desiderio e pensiero, mente e cuore. Vediamo con chiarezza le sue mutazioni e la sua crescita, tesa a inglobare ogni aspetto del nostro mondo interiore-esteriore.
È madre di Enea. La discendenza divina è simbolo di regalità.
La Vergine Maria rappresenta l’elaborazione cristiana della Dea Madre, depurata da ogni caratteristica erotica. Sarà per questa mutilazione millenaria, fonte di nevrosi, che James Joyce dileggia le litanie mariane nell’ “Ulisse“. Invece in Molly lo scrittore crea una Venere completa, amante del suon impresario e pure del marito Leopold Bloom, ma sapiente nel monologo notturno finale, in cui esprime la devozione al Creatore, con una breve derisione volta agli uomini di cultura, incapaci di riconoscere la presenza divina ovunque. Molly suggerisce, con un linguaggio biblico popolare ma saturo di intuizione femminile, decisamente venusiana, lo sguardo che Jahvè insegna a Giobbe: occorre saper guardare contemporaneamente non soltanto il proprio dolore ma la grandiosità della vita negli aspetti eternamente rigeneranti e provvidenti. I due volti della dea, erotico e spirituale, vengono finalmente riunificati da Joyce dopo duemila anni di scissione repressiva. Così la vita merita il sì pieno e ripetuto dalla Molly sognante.
La prostituzione sacra veniva praticata nei templi egizi e di tutto l’oriente, soprattutto dalle ragazze da marito; i proventi dei riti dedicati alla dea costituivano la dote per il futuro matrimonio.
Bellissimo l’ “Inno ad Afrodite” di Saffo, tradotto da Eugenio Montale, con l’incipit:
“Afrodite, trono adorno, immortale, / figlia di Zeus, che le reti intessi, ti prego: / l’animo non piegarmi, o signora, / con tormenti e affanni. / Vieni qui: come altre volte, / udendo la mia voce di lontano, / mi esaudisti; e lasciata la casa d’oro / del padre venisti, / aggiogato il carro. Belli e veloci / passeri ti conducevano, intorno alla terra nera, / con battito fitto di ali, dal cielo / attraverso l’aere. / E presto giunsero. Tu, beata, / sorridevi nel tuo volto immortale“.
L’immortalità è sottolineata due volte. Afrodite è figlia di Zeus, i passeri terrestri sono i suoi messaggeri. Terra e cielo riuniti esprimono pienamente l’aggettivo “beata“.
Graziella Atzori