In canto a te – Lucianna Argentino


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In canto a te, Lucianna Argentino (Samuele Editore 2019, collana Scilla, prefazione di Gabriella Musetti), o dell’elogio del tempo ordinario.

Conoscevo la poesia di Lucianna Argentino avendo letto solo qualcosa sul web relativo a opere precedenti all’attuale (Verso Penuel, L’ospite indocile, Le stanze inquiete…) e devo dire che mi colpì subito una parola dal sapore antico, marcata dalla tensione allo svelamento della verità; una parola posta in una sorta di interstizio tra l’impressione che l’oscuro linguaggio della carne lascia in noi e l’espressione di quella mediante gli strumenti, sempre inadeguati, della nostra lingua, come se le due esigenze altro non fossero che momenti di un unico e potente linguaggio che si esprime ora nella dinamica del dare (sul piano esistenziale) ora in quella del dire (su quello poetico).

Ho avuto conferma di ciò leggendo l’ultimo libro della Argentino, In canto a te (Samuele Editore), e sono stati alcuni versi che mi hanno confermato quale possa essere il senso e il costo della vocazione poetica. Eccoli:

“col silenzio fortifichi l’ardore del pensiero (…)
perché ne nasca una parola
prima della parola
– la rincorsa del cuore
– lo sperpero del sangue
– l’esercizio dei sensi”.

Belli, anzi bellissimi perché in questi versi c’è il senso di un poetare che si ricapitola in un avventuroso e pericoloso esercizio di traduzione di ciò che la carne dice col linguaggio che le è proprio, ovvero con quello del desiderio e dell’amore, anche nella forma dell’eros, il quale, se non lasciato a se stesso, diventa un’esperienza che può introdurre meglio alla comprensione del rapporto tra uomo e Dio.

Mi sono chiesto che poesia fosse quella che stavo leggendo e, a dire il vero, ancora me lo chiedo, e provo a rispondermi dicendomi che si tratta di una poesia dalle larghe braccia, dai pensieri fecondi, dai passi timidi, ma ampi e caparbi, insomma di una poesia che ha il sapore della totalità, perché è solo ripartendo dall’esperienza della carne, dal suo orizzonte, che può rifondarsi una parola poetica che apra al sovrasenso e, se si vuole, anche alla dimensione del sacro, tutta da riscoprire. E la narrazione si svolge, pagina dopo pagina, avendo ben chiara la perenne tematica antropologica che è alla base di ogni creazione poetica: quella relativa alla natura del tempo, all’ introspezione come luogo ricostituivo della verità personale; quella della poesia come parola riparatrice; ma, su tutti, però quella relativa alla natura fondativa e ri-creativa dell’amore.

Il tema dell’amore, nella poesia della Argentino, ha molte rassomiglianze con la nozione di carità che ha attraversato tutta la poesia del grande Mario Luzi (“L’amore aiuta a vivere, a durare/ l’amore annulla e dà principio”, da Aprile – Amore). Tema, questo, che, per un proprio itinerario esistenziale/poetico ritroviamo scolpito nella raccolta della poetessa romana, nel solco di quella inveterata percezione che assimila l’amore al sacrificio di sé, al rinnegamento, come ad una sorta di necessario viatico perché la vita si apra ad una dimensione inedita, ad una dimensione trasfigurante di memoria taboriana. E dunque è chiara la poetessa quando ne “In principio” dice che “il tempo non guarisce, né ci sottrae nulla, semplicemente ci riconsegna tutto in altra forma”. Sembrerebbe questo un dire ammansito dalla cinica lezione della storia, ma subito dopo la parola sovverte la percezione di arrendevolezza, avvertendo che, se è vero che nulla “nell’anima si consuma”, tutto resta preservato – nei suoi errori, nei suoi ardori, nei fallimenti così come nei successi – per una dimensione nuova, quella ri-fondativa dell’amore. Una dimensione a cui dovremmo avere il coraggio di consegnarci, senza riserve o rinunce, senza calcolo o preservazioni, perché “l’errore è sempre quello di non fidarci dell’amore”, di non “arrenderci” al suo richiamo.

In questa prospettiva la parola poetica diventa la narrazione di un rapporto, per un verso umano, per l’ altro divino, anzi di una relazione amorosa mai del tutto consolidata, sempre in bilico tra abbandoni e ritrosie, slanci e avarizie, fedeltà e inganno: una cifra biblica, questa, con cui interpretare il legame perenne tra uomo e Dio.

E allora, nella logica di questo rapporto, tutto giocato sulla nozione dell’attesa e da questa quasi redento, o purificato, si può comprendere quel “Perdonami/per non aver compreso allora/quanto profondo fosse l’amore”; quell’amore che solo può riconsegnarci ad una diversa nozione del tempo, non più asfissiata dalla “direzionalità”, ovvero ad un tempo nuovo, “ordinario, senza freccia”, in cui poter sperimentare “la grazia e del qui e dell’ora”, cioè di quell’imprevedibile verità di cui è carico ogni istante della nostra vita.

Di fronte allo schiudersi del tempo rivissuto nella disponibilità della grazia o del dono, la parola poetica abbandona le astruserie e si converte ad un dire semplice e solenne; a dire, quasi nella forma del “giuramento(…) con la mano sinistra sul petto” ciò che il cuore avverte e sente come vero. Più avanti, quasi in una sorta di pura invocazione: ”Toccami” – dice la poetessa – ricreami l’anima con le tue mani, il corpo col tuo sguardo…”. C’è, in questa sincera richiesta, tutta l’attesa racchiusa nella lunga storia della salvezza biblica, dal vecchio al nuovo testamento, ovvero il mai cancellato desiderio (ché di questo parliamo) dell’uomo di essere parte del divino, perché è della vita umana l’attendere di una visitazione, lo schiudersi di una presenza e di una parola rivelativa. Mi sembra quasi di udire, in modo più profano, ma proprio per questo più autentico, le parole del salmo 51: “O Dio crea in me un cuore puro, dammi uno spirito ben saldo…”.

Non so se fosse intenzione della poetessa sfiorare certi abissi spirituali, ma indubbiamente siamo in presenza di un libro che diventa un nuovo modo di leggere l’ esperienza umana, un libro che, col suo registro lento e solenne, scava dentro ognuno di noi, invitandoci a vedere nel visto qualcosa che va oltre lo stesso vedere, oltre lo stesso dato sensibile: una testimonianza questa della ricerca del sovrasenso, lontana dalla quale ogni uomo si riduce alla somma arida e banale dei suoi atti. Risento in questo libro tutta la nozione di quella ragione poetica tanto invocata e difesa da Maria Zambrano, quella sorta di richiamo ad affidarci, come dice la Argentino, ad una “vita antica” che giace nel nostro fondo umano, una voce mai “arresa”. La poesia, nel rapporto autentico con quella voce, sa che l’assillo non è la forma, non è l’adesione a canoni compositivi esteriori, ma quello di far “risuonare il cuore di quella parola” che non smette mai di operare in noi.

Solo nell’adesione a quella voce, solo quando le si dà l’opportunità di venire alla luce, allora si attua la “bonifica dell’anima”, si ritorna a scolpire in noi la forma originaria del nostro essere, portando a compimento la “leggenda di ciò che non siamo stati” o non siamo riusciti ad essere.

Se ciò si raggiunga a partire da un più o meno tranquillo menage familiare, oppure nel silenzio mistico della preghiera o dell’attesa, o nel corpo a corpo con la parola poetica, non ha importanza: ciò che importa, alla fine, è che ogni parola resa sul foglio nasca dall’impegno ad “abbordare nel luogo in cui carne e spirito siano una cosa sola”.

Biagio Accardo

 
 
 
 
Perdonami
per non aver compreso allora
quanto profondo fosse l’amore
questo che ha attraversato
primavere renitenti e inverni caparbi
e approda ora alla nostra estate piena
con lo stesso volto
gli occhi arrossati dal rimpianto
le mani giunte in preghiera
per la grazia del qui e ora
noi liberi dal per sempre
ché eterno sarà l’essere stati.
 
 
 
 
 
 
Pelle a pelle quando il desiderio
si quieta – appagato –
il mio capo sul suo petto
le sue braccia attorno al mio corpo
a farci somma di coefficienti interi così che il due
sia perfetto nell’uno
perché una sola carne si diventa a poco a poco
– senza sacramento.
 
 
 
 
 
 
Siamo punti coniugati
nella geometria di una stagione
i cui giorni si liberano un poco
dall’abbraccio della luce
perché ormai gli basta quel che ne resta
e la raggiunta sapienza
facilita alla vita il compito
di trovare dati certi dentro le incognite.
 
 
 
 
 
 
Con le mani asciugo il suo volto affaticato,
scolpito da anni con pagine strappate
– Veronica anch’io di un vangelo apocrifo
sui palmi porto l’impronta
della sua passione mia stimmate,
ma in controluce sulla foglia dei suoi occhi
leggo la buona novella e il sorriso mai arreso
di lui che ha un cuore buono e mani grandi
pratiche del con e del senza.