Il giardino dell’attesa – Rosa Salvia


Il giardino dell'attesa - Rosa Salvia

È un giardino apparentemente abbandonato, in realtà coltivato nel silenzio, in un’attesa che è il vivere stesso, e aprirsi al fuori, cose, animali, il paese e il paesaggio, il Monte Lifoi, i personaggi. E in tutti questi colori, in tutta questa descrittività, in questo apparente sguardo solo recettivo, passivo, si sente, sotto, il pensiero, un’interrogazione continua, un’ansia filosofica, che è, sì, in quell’Intermezzo dove si trascolora impercettibilmente dall’haiku all’aforisma (tra i momenti più alti del libro) o in quel Kant che fa capolino alla fine, “visita” che è un cammeo, ma poi in ogni parola, in ogni “oggetto”, anzi “ente”, sia esso cosa, personaggio o fatto (“fatto tra i fatti”). È il giardino della vita, “dove tutto fiorisce / e marcisce”, dove si consuma un attendere, che è anche un essere attenti, intenti, a qualcosa che trapela appena, traspare tra lo scorrere delle cose, e che Rosa chiama: “una mortale infinità” (e che è anche un affinamento): “ancora e sempre saliamo in giardino, ove i rami / riducono il loro peso come se sentissero / con le foglie / la mortale infinità”.

 

Claudio Damiani

 
 
 
 
Dormi
ma il cuore veglia
cresce il fiume.
 
 
 
 
E come radunare
i mille pezzettini
di ogni vita!
 
 
 
 
Il tuo volto
stride
come un clown ispirato.
 
 
 
 
Il mulino cos’ha?
La ruota gira gira.
E non macina grano.
 
 
 
 
Nei crepuscoli amari
la fiumana
snocciola i suoi rosari.
 
 
 
 
Invisibile sotto la verdura
un filo d’acqua
cerca la sua vena.
 
 
 
 
Una mascherata dispersa
si accalca
sotto la pioggia.
 
 
 
 
Sul fiume gelato
un fruscio d’ali di passero
che plana.
 
 
 
 
In piazza un tale parapiglia
che l’albero di mele su in giardino
ha scosso le sue foglie per la meraviglia!
 
 
 
 
Fra scialbi bucati stesi nei vicoli
due gladioli respirano un angolo d’ombra.
 
 
 
 
Un gufo si è appollaiato sui rami del noce.
La notte è inquieta.
 
 
 
 
O donna che hai perduto la luce, ascolta l’eco:
senti? è il canto del poeta cieco…
 
 
 
 
In certi paesaggi brulli si possono vedere
le ossa della terra che è un giungere più vicini
all’essenza delle cose.
 
 
 
 
Chi sa quando arriveremo a una stazione
totalmente identica a quella da cui siamo partiti.
 
 
 
 
Tu guarda, c’è come un’attesa nelle cose che non pensano,
che noi con superbia pensiamo fatte di niente.
 
 
 
 
Almeno accettarlo l’abisso, piangendo, non desiderarlo
e sparire sul rovescio dei sogni.
 
 
 
 
S’affonda in silenzio
il colore dei fiori
mentre guardi
oziosamente passare
il fumo di una ciminiera.
 
 
 
 
Obliqua l’estetica del Nulla
scorre nella clessidra
come il belletto
su un viso di prostituta
in gramaglie.
 
 
 
 
Visita di Kant

La memoria è la facoltà di sapere che dobbiamo vivere.
Fernando Pessoa

 
Stamane Kant, col sudore della stella
tatuata in fronte è venuto a farmi visita,
puntuale come l’orologio del municipio.
Tra due memorie, ormai divise, come
tagli obliqui, ma che si ricordano l’un l’altra,
siamo saliti verso l’oscura bellezza
lievitata in ogni granello di respiro.
Inciampando, ricominciando il cammino
con qualche livido in più.
«La memoria è lunatica» mi ha detto, «ne
conosciamo, no? gli imperativi e le trappole…
Anche quelle di darle una forma. Ma memoria
e forma sono anch’esse un fatto tra i fatti.
Né meno né più».
 
 
 
 
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