Il Condominio S.I.M. – Alessandro Canzian

Bozza automatica 2420

In occasione del compleanno di Alessandro Canzian, fondatore di Laboratori Poesia, si pubblica in anteprima una recensione de Il Condominio S.I.M., in uscita nel 2020 per Stampa2009 (la copertina è da intendersi non definitiva).

 

Il condominio S.I.M., ultima fatica poetica di Alessandro Canzian, è una silloge basata su un condominio realmente esistente. Tuttavia i personaggi protagonisti della raccolta, gli abitanti del condominio, non sono reali, ma traggono vita dall’immaginazione e da alcuni dati reali percepiti dall’Autore stesso. Attraverso le pareti. Attraverso rumori, gemiti, passi, urla, lamenti. Sebbene la vita condominiale, per chi la vive, possa essere uno strambo risultato di convivenza indiretta fra condomini spesso agli antipodi, spesso perfetti sconosciuti tra loro, vero è che anche l’estraneità riesce a generare un terreno fertile per la conoscenza dell’altro, al di là delle pareti: al di là di ogni porta, nient’altro che il modo in cui si può conoscere. Una conoscenza un po’ alla cieca permette di vedere meglio cos’è quella persona, cos’ha subito e quali sono le sue abitudini? La risposta è positiva, almeno se restiamo all’interno della premurosa stanza che è l’immaginazione. Ma l’immaginazione può rivestire tale ruolo solo se contornata da un pensiero più radicale (Non conosco la ragazza/ di nome Olga, però la penso). Percepire.

Il tratto distintivo della raccolta in questione è certamente da individuare nella sua struttura, ben edificata in cinque anni di lavoro, che prevede all’incirca otto testi per quasi tutti gli otto condomini che lo abitano (Olga, Carlo, Anna, Giulia, Silvio, Alberto, Alina, Aldo). L’abilità dell’autore, in tale direzione, mi è sembrata coincidere, seppur in maniera ovviamente parallela (dato che si tratta pur sempre di poesia), con la funzionalità che ricopre il narratore di prosa. C’è un modo di intrecciare storie sospese che cattura, fin nelle fessure. Incastonato in ogni storia, poi, c’è molto di più. Si arriva a scavare dentro il vuoto, pur di reperire qualcosa di concretamente tangibile, di contro a tutto ciò che appare esserlo in questa distanza instaurata dalle pareti e dall’ignorarsi a vicenda, oltre il tappetino che divide/ il tessuto molle dalla vita.

Elementi di un percorso (pre)detto già in Canzoniere inutile (Samuele Editore, 2010) di Alessandro Canzian; di seguito le parole di Elio Pecora, dalla prefazione: “se pure in questa raccolta di versi tutto appare inadeguato al desiderio che perpetra le sue attese; anche se la memoria si strema di eventi minimi, per oggetti consunti, laceri; e la vita intera assomiglia a un esilio – la voce che qui si pronuncia continua a porsi domande, a tentare risposte”.

Riporto un passo della precisa ed esemplificativa prefazione al precedente libro di Alessandro Canzian, Il colore dell’acqua (Samuele Editore, Fanna, 2016), firmata da Mario Fresa: “Si avverte il desiderio di resistere contro la dissoluzione delle preziose radici della propria memoria, nella lingua pacata – eppure folta e vividissima – di Alessandro Canzian. Il poeta interroga il tempo e il suo improvviso disperdersi, nel tentativo fortunoso di debellare l’emergere del niente e della morte che in ogni istante schiaccia e preme l’affiorare di ogni evento, di ogni gesto, di ogni parola. In questa dolorosa e amorosa narrazione poetica la realtà, perduta e rinominata sempre, si disgrega e poi risorge di continuo, apparendo come illusione ed enigma, come promessa incauta e come incalcolata perdita: essa si presenta nella forma di un’angosciosa ragna che descrive – imprigionandola con il sigillo estremo della sua violenza muta – una dimensione pulviscolare e anfibia, terrena e metafisica insieme; così si mostrano, sulla scena del racconto lirico, fantasie di amori, rimembranze di antiche ferite, luminescenze di affetti smarriti, trasfigurati segmenti autobiografici, minuzie che rispuntano inattese e che parlano sempre con il suono di una tragica dolcezza”.

Le parole di Mario Fresa vadano considerate anche per questa nuova fatica poetico-narrativa: ci sono valide testimonianze di chiuse aspre, vivide e didascaliche al tempo stesso. Dunque, si vedano alcune chiuse come: la vita ritirata come un ragno (in Olga); Non si può essere più soli/ di quando non si è soli (in Olga); Non siamo fatti per restare (in Carlo); è inutile attendere l’attesa (in Carlo); E un pacco di cerotti per/ quando ci si fa male nella vita (in Anna); Anna/ pensa l’uomo una frattura (in Anna); In fondo anche il vuoto/ dice la forma che ha lasciato (in Anna); Non sapeva, Silvio,/ che ogni passo è una caduta (in Silvio); come avesse bisogno del suo male (in Silvio); Una/ chiusura non è mai chiusura/ senza una porta a cui bussare (in Silvio); Il tempo che ci è dato/ non coincide con la vita (in Silvio); un uomo/ può sempre chiedere scusa/ senza mai riuscire a farlo (in Alberto); troppa serietà e posatezza/ non fanno bene a un uomo (in Alberto); a un certo punto della vita/ non siamo più figli di nessuno (in Alberto); Il frutto quand’è maturo/ si guasta se non lo cogli (in Alberto); La solitudine non invecchia (in Aldo); ancora non resiste a quell’odore (in Aldo); il mondo è uno, uno e uguale (in Aldo).

Sebbene ci siano sicuramente numerose attenzioni da dedicare anche agli altri condomini, una in particolare riveste un ruolo fondamentale. La figura di Olga, contratta in un pensiero germinato da un fertile terreno bibliografico, un bagaglio di letture a sfondo erotico-amoroso, dove la risultante principale è l’identità, correlata all’esilio e al gesto. Olga è un personaggio complesso, in gestazione fin dalla precedente raccolta Il colore dell’acqua (Samuele Editore, Fanna 2016). Possiamo immaginare, o meglio pensare, la ragazza di nome Olga flettersi come un’ombra profonda come il buio dentro un uomo (parafrasando quella che inizialmente sarebbe dovuta essere la chiusa del primo testo che la riguarda); e ancora possiamo pensarla sinuosa mentre balla musica anni ’80, e raffinata, mentre calza un golfino grigio affusolato; possiamo pensarla sola e piegata come la sua identità, come quando “è appesa alle mani di qualcuno” o “quando/ prega Dio con le ginocchia“. E ancora, la pensiamo allungata, a partire dal suo stesso nome ispirato alle Histoire d’O di Pauline Réage (Dominique Aury), ma che trova un alter ego in un’altra condomina: Anna. Tuttavia, come poetato dallo stesso Canzian (letteralmente) tra le righe del secondo testo su Olga, “il nome non ha importanza/ nel trascorso del racconto“, anche perché sappiamo che nelle vene di Olga scorre – per così dire – buon sangue, quello ereditato da L’amante di Marguerite Duras, da una lettera di Cristina Campo ad Alejandra Pizarnik (22/02/1963), dalle Poesie Fuggitive di Edoardo Sanguineti (Feltrinelli, Milano 2014), da Alfabeto dell’invisibile di Chiara De Luca (Samuele Editore, Fanna 2015), da Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino, ma anche da un paio di romanzi scritti da Milan Kundera (L’insostenibile leggerezza dell’essere e La festa dell’insignificanza). Il comun denominatore è una pluri identità, sessualmente contorta ed esaltata dall’egocentrismo di una forma d’amore abominevole, che verte sul concetto dell’esilio kunderiano applicato al concetto stesso d’identità. La pluri identità Olga-Anna è segnalata dallo specchio, un indizio nel secondo testo dedicato ad Anna: “Anna cammina spesso/ di notte nella stanza./ Conta i passi ticchettando/ muro contro muro/ l’intonaco dei giorni./ Vibra qualcosa fra i capelli./ Passa mezz’ora nello specchio“.

La pluri identità Olga-Anna, inoltre, è indicata dal modo di vivere e di affrontare la vita e sé stessa in quanto donna, “perché gli uomini amano l’effimero,/ ciò che esiste e poi scompare./ Non siamo fatti per restare“. Perciò, ecco chi è Anna: “Anna vive all’altro lato/ del corridoio, e come/ una poesia prende la vita/ con i gomiti, con le braccia/ legate dietro la schiena. Anna ha un amore/ sconfinato per sé stessa” ed è proprio per questo che “non vuole essere toccata“.

Infine, in sostanza, l’amore è sempre più teso nel suo intrinseco emisfero, in maniera direttamente proporzionale all’aumento di stabilità che assume la sessualità in relazione all’identità, perciò, come disse Milan Kundera: “legare l’amore alla sessualità è una delle idee più bizzarre del Creatore“, lo stesso Dio-Creatore che Olga prega con le ginocchia, quando il dolore è pari al suo piacere, quando “è in gabbia” – come Carlo – e “non sa come uscire dalla vita“, “ritirata come un ragno“.

Vernalda Di Tanna

 
 
 
 
Non conosco la ragazza
di nome Olga, però la penso.
La pelle bianca come i capelli
di mio padre, il seno grande
– i tacchi ben calcati
la sera alla mia porta -, poi
l’altra notte l’ho sentita urlare
appesa alle mani di qualcuno.
 
 
 
 
 
 
Olga la sera investe
tutta se stessa in un divano,
una telefonata a sua madre,
uno schianto. La distanza
degli anni è come ortica.
È tutto ciò che resta.
 
 
 
 
 
 
Olga si taglia le unghie
ogni martedì mattina. E
tiene una mano fra le gambe
a respirare l’alito di Dio
ogni volta si addormenta.
Non si può essere più soli
di quando non si è soli.
 
 
 
 
 
 
Carlo so ha fatto un viaggio.
A Londra, o a Parigi, ha
fotografato salumi e donne
abbracciate alle vetrine, perché
gli uomini amano l’effimero,
ciò che esiste e poi scompare.
Non siamo fatti per restare.
 
 
 
 
 
 
Carlo questa notte ha fatto
l’amore. Ho sentito versi
di gole che si toccano, ma
non aveva volto quella donna.
Solo piedi lunghi e capelli ben curati.
E grida di un animale in gabbia
che non sa come uscire dalla vita.
 
 
 
 
 
 
Anna ha messo in balcone
due vasi senza fiori. Li
ha messi in fila contro
il muro, come rappresaglia. Un
riccio preparatosi allo schianto.
In fondo anche il vuoto
dice la forma che ha lasciato.
 
 
 
 
 
 
È bizzarra questa Giulia che
guardo ma non conosco,
ascolto, ma non parliamo.
Le calze scure, i tacchi
appena un poco alti e
i capelli arricciati come polvere.
Giulia oggi è un melograno.
 
 
 
 
 
 
Quando hanno svuotato
l’appartamento di Silvio hanno
trovato libri accatastati e
scorpioni e scarafaggi. Credo
Silvio li tenesse apposta
messi accanto al letto
per ricordare cos’è l’amore.
 
 
 
 
 
 
Alina veste spesso in nero
perché la fa sentire snella
e più serrati i fianchi. Ha
una bellezza contadina
di appena cinquant’anni ma
portati male, con fatica.
Un sorriso alla varechina.
 
 
 
 
 
 
Quando si è soli tutto è buono.
Anche la cinquantenne trovata
a ballare mezza nuda e che
non chiede niente. Non fa
differenza l’età, direbbe Aldo.
La solitudine non invecchia.