Speciale Umberto Piersanti: l’Uomo e il Poeta

In occasione della presentazione di L’isola tra le selve. Poesie scelte 1967-2024 di Umberto Piersanti (Marcos Y Marcos, 2024) al Salone del Libro di Torino (Qui le presenze dei libri e dei redattori di Laboratori Poesia) domenica 18 maggio, Pad. OVAL Sala della Poesia di Pordenonelegge, a cura di Claudio Damiani, la redazione per l’interessamento di Federico Migliorati, Rocio Bolaños e Rossella Frollà omaggiano il poeta urbinate con uno speciale in tre parti: Una lettura del libro Marcos Y Marcos (QUI), una traduzione (QUI) e una riflessione.

 
 

Umberto Piersanti è uno dei maggiori poeti italiani contemporanei ma anche il mio antico professore universitario.

Un giorno parlando di sé mi ha detto:

C’è un luogo particolare nella fisicità del tempo dove tu hai percepito il mondo e ti sei formato, quello è il tuo luogo.

Poi ha continuato:

L’impegno sociale, civile, politico non è un obbligo per il poeta ma per l’uomo. Non basta essere poeti bisogna anche essere uomini.

E Carlo Bo mi diceva di lui: «Umberto Piersanti è impastato di vita e mira alla vita».

La sua è un’energia vitale a oltranza che si lega al luogo. È il poeta urbinate delle Cesane che ha fatto della sua terra la «patria poetica», così come« matria» aveva già definito la sua terra Andrea Zanzotto.

Condivide con Bertolucci il passo del viandante, l’uno contadino tra lo scotano rosso, l’altro feudatario mite tra i sentieri e i calanchi di Casarola. Sono entrambi musicati dall’essenza del tempo che illumina il luogo assoluto, la Natura, luogo di pace e di fughe. È questa una natura che accoglie e riscatta, è il topos cosmico, l’originario della memoria che ha nutrito le prime emozioni. Dal luogo scorre una gioia mitografica che nutre la parola contro ogni male. È quella di Umberto una “felicità provata” dalle ferite imposte dalla vita: La «grande paura» e la malattia del figlio Jacopo.

Tutta la sua vita e la sua opera si collocano lungo l’asse orizzontale di un «tempo perduto», di un «tempo differente» e di «fuga nell’Appennino», di un «tempo dopo il male», di un «tempo che precede» i dolorosi incidenti di percorso. E in questo tempo che muta e «che s’invola», urge un Altrove ostinato, memoriale e mitico che si impasta con la Natura e col mondo sensibile dell’immanente. L’io si abbandona al richiamo delle cose e del mondo, la parola subisce la sua metamorfosi e segna la poetica di Umberto che è un tutt’uno con l’io. Si anima ogni elemento della natura e della memoria, si intrecciano con l’io le «figure magiche», le «favole antiche», le leggende, il rito pagano dell’eros, la ciclicità delle stagioni e gli eventi in mutamento. La parola si fa nuova creatura, la rêverie del tutto. Da quel «ragazzo immortale» del 1973 che commuove e testimonia il suo tempo si colgono le premesse di un significativo luogo di appartenenza privato, un luogo laterale al mondo. Si fa strada in quegli anni la polemica tra personale e politico che anticipa la rivendicazione culturale al diritto dell’io esistenziale che per il poeta rappresenta la tutela e la massima espressione dell’io lirico, scisso dalle forme pubbliche di contesto. La Natura contrasta tutto ciò che minaccia la corsa eroica verso la vita. Le stagioni, i mesi, la nomenclatura attenta di piante e fiori resistono al tempo, al mondo in tacito accordo con il presente. Il linguaggio lirico, elegiaco, fin da subito distante dalla dogmatica «eversione linguistica» imperante in quegli anni, è una condizione naturale tesa a inaugurare una poetica altra, indomabile. Le Cesane sono pronte a musicare un concerto di sana tradizione lirica. I luoghi persi, amati, riconosciuti, tratteggiati fino all’ostinato sentire, aperti al mito, alle epifanie classiche e quasi celtiche si fanno risposta competitiva, e non consolatoria, rispetto a una legge che in natura toglie e consuma ogni bene e ogni bellezza, si fanno canto misterico leopardiano di antica memoria. In atrii passi quello di Umberto è un «calibrato controcanto» con il D’Annunzio dell’Alcione nell’invocazione dell’estate come possibilità di risanare ogni convalescenza che perdura.

Infine tutto si fa un tempo pieno, in cui lo sguardo è lucido e sempre prensile sulle cose del mondo. Umberto si avvicina al mistero del dolore con lo slancio vitale che accoglie ogni fragilità, le ombre straziate, il sacrificio, la stanchezza. E la parola si fa pacata e quieta anche di fronte alla ferita più dolorosa che la vita impone al figlio Jacopo. Vi è oggi un equilibrio interiore che garantisce al mio amico poeta una serenità imperturbata pur nella convivenza quotidiana con le sue inquietudini che restano e lo pone nella condizione di esaurire in parte questa intima aspirazione dell’anima.

L’anima

io non avevo mai capito
da dove l’anima viene tra gli spini
ma l’anima è piccola, fatta d’aria,
passa tra gli spini e non si graffia

L’anima «fatta d’aria» apre il tempo breve di Umberto Piersanti, il tempo differente, il tempo che precede, il tempo lungo del Novecento dove il ricordo e il sogno promettono di ritrovare l’archetipo immutabile e immobile sotto la memoria, in quel potere che hanno i luoghi primigeni e l’infanzia. Lì, dove l’eros, le potenze paterne e materne occupano il loro posto e sfuggono al tempo reale, vivono con il poeta in un’altra dimensione. Tutto rimane all’origine di immagini potenti in cui la natura ha quella qualità originaria, quel bene primigenio che accoglie ogni potere archetipico e resta sempre l’origine, la sorgente. Le risonanze e i diversi livelli di profondità fanno rivivere quelle emozioni che ci entusiasmano e ci commuovono. Siamo spinti a sognare in profondità da Mi commuove il ragazzo immortale a Sonia prima del grande male, preludio all’Urlo della mente. Le rêveries riattivano gli universi felici, le immagini di una felicità semplice, contadina in cui si è toccati dalla grazia di vivere e il futuro appare sempre giovane, con l’invito a spiccare il volo.

Frammento lirico

Ricordi la casa perduta tra i greppi
il sapore del fieno
e l’immensa famiglia contadina?
Il primo bacio stupito ai Cappuccini
e Dio e la morte a sedici anni?

In questi versi c’è l’universo mondo della poetica mito biografica di Umberto Piersanti. Questo grande legame affettivo con il luogo e l’infanzia resisterà a tutte le esperienze di vita del poeta. L’accordo poetico della Natura con i suoni archetipici dell’essere dimostrano tutta la forza e la potenza della poesia, il peso della parola che si fa sintesi dell’esistenza umana. I fiori primaverili del bambino, le prime storie del nonno Madìo davanti al fuoco e la «madre» al lavatoio, «fra tutte la più gentile», sono i cardini, i principi per la prima analisi del mondo e saranno il referto del poeta adulto. Si sa che il poeta ha gli strumenti per auscultare le prime rêveries della vita, per rinverdire le antiche risonanze che possiedono quel che ancora non è stato pesato e pensato dall’intelletto. È quel che l’io stesso non conosce, ma che di fatto è la parola, a riconoscere quando quell’area del cervello libera l’epifania e lascia che essa voli alta sopra il pensiero e l’esperienza tra il reale, il fatto concreto accaduto e l’immaginifico. Qui la memoria raggiunge il suo pieno slancio poetico e la rêverie supera il vissuto. In ogni verso il ricordo sembra sempre giovane e aperto a tutto quel che non dimentica: supera i confini dell’io per riferire il sé che si fa qualcosa d’altro, creatura nuova che esce allo scoperto. La natura stessa appare immateriale e animata e i ricordi volano alti sempre più felici. E noi che leggiamo di queste figure mitiche, delle «euforbie», delle «fate», delle antiche leggende custodiamo un’infanzia che arricchisce la nostra. Qui tutto si immagina prima e si reimmagina e si scopre durante. È questa l’esperienza della poesia di Piersanti che celebra la sua spiritualità nella Natura, nel dolore per un figlio autistico, con La giostra, una delle sue più alte e profonde poesie. È questa la storia di una vita dentro il Novecento che da individuale si fa universale. È «l’isola tra le selve» del mondo, l’idea che accade nell’atto, «il mirto fitto tra le boscaglie», l’incontro con la propria terra. È questo il luogo, la «patria poetica» delle promesse, la figura di un mondo materno riconosciuto, amato, sofferto. È, dunque questa, tutta la Bellezza che lo ha sorpreso «con la testa dentro l’erbe» e, lì, il senso di gratitudine ha superato le sue stesse intenzioni.

L’isola

[ … ]

Férmati nella radura dove il vento
ha disseccato e sparso i rosmarini
qui potremmo vederle se aspettiamo
immobili alle euforbie quando imbruna
vanno alla bella fonte degli aneti
giocano lì nell’acqua e tra le erbe
e mai s’è udito un pianto
sono felici.

È così che lo «spino bianco», il «favagello», «le margherite gialle dell’autunno», «l’anemone tra l’erba» e i «greppi» attraversati dalla nebbia sono i bagliori di una poesia che incanta mentre lo «scotano» si accende di rosso. Le fughe dentro il tempo differente, stretto alla Primavera del 1968, «in quella primavera stentata», lontano dai rumori della contestazione giovanile, dalle battaglie politiche, un tempo quello del poeta, laterale a tutto, alle rivendicazioni e alla presunzione di crescita dei grandi diritti. Eppure, arriva la commozione lucida del poeta di fronte a un giovane che segna il suo tempo.

da Mi commuove il ragazzo immortale

Mi commuove il ragazzo immortale

Mi commuove il ragazzo immortale
alla luce chiara di gennaio
ha il cammino lieve di un dio
e una femmina tenera sulla spalla.
 
«Anche tu sei entrato di soppiatto
insieme agli altri, con parole ed atti
già nella storia, come l’ultimo gioco.
 
[ … ]  
Ma ti è ignara la meta
e il tempo che ti sovrasta.

La bellezza delle immagini aumenta il senso di sconfitta nei confronti del futuro e ricompone il desiderio che non guarisce nell’attesa. Qui il futuro, il caso, la provvidenza non fanno parte del sistema e la commozione è forse per l’ultimo gioco che la vita offre prima che si faccia adulta.

Il poeta è distante anche dagli sperimentalismi della poesia di quegli anni, defilato rispetto alla contemporaneità con una sua voce lontana da ogni altra di quel periodo. La sua sarà una voce lirica che ricorda Pascoli, D’Annunzio, Bertolucci. Di Pascoli il narrare lirico dei lenti tempi contadini e una stagione del cuore sempre primigenia. Di D’Annunzio sarà la lirica appassionata l’eros contemplato e compiaciuto in fuga da tutto, le mirabili descrizioni dei luoghi. Con Bertolucci condivide l’amore per la terra: feudatario l’uno, contadino il nostro poeta. Tuttavia entrambi celebrano l’anima dei luoghi e dei paesaggi: l’uno viandante lungo i sentieri di Casarola, l’altro fuggiasco sulle Cesane e sul Catria e il Monte Nerone dove con lo sguardo si arriva fino al mare.

da Primavera 1968

Il volo dei tordi
infrascati sugli orli dei fossi
per l’aria memore di ghiacci
in quella primavera stentata
presso la gora morta
fradicia di scorie
lì dove il peso eccessivo del fiore
curva rami di biancospino
[ … ]  
Eri ancora più scura nella chiesa
per il bianco degli occhi
il riso della bocca largo
estranei agli architravi
alle nicchie alle cose
da sempre familiari.
[ … ]

La natura è un rifugio sempre aperto allo spazio della fuga con l’eros che scuote dall’inerzia e segna una poetica sempre nuova: «Presto ci si rifugiò tra l’Appennino/una dimora incastrata nella terra/con coppi scheggiati e muschi sopra i legni».

È Questo dunque il «tempo differente» che si conclude con la poesia A Sonia, già preludio a L’urlo della mente, al grande male psicologico del poeta. «L’ostinato mito d’erbe» della fuga «costante tra l’Appennino» si conclude e il sopravvento è di un tempo altro che lo fa prigioniero.

da L’urlo della mente

[ … ]

Ora il mio male viene
dalla parola, un mondo dove non sai
quale delle parole innesti
feroce il meccanismo e non è
forma ormai ma segno
il più pauroso della mia follia.

La molteplicità delle immagini sostituisce l’uniformità della causa del dolore in Le margherite gialle dell’autunno. È «la fiamma chiara/d’una possibile riscossa/il saluto lungo/nel viaggio ritentato/il laccio sottile/d’aria di colori sul trapasso/per un tempo/oltre lo stupore/fugace/di fiori e degli azzurri/ancora sanguinosamente/differente. Quel che conta per il cuore del poeta è che l’«assurdo» non abbia intaccato i luoghi. Il rapporto mitografico della parola coi luoghi è salvo e le rêveries attraverseranno tutte le età del poeta senza invecchiare, salde nella memoria e nella bellezza della sua terra. La solitudine spesso idealizza i mondi dell’infanzia e anche la memoria dei paesaggi interni ed esterni. Questo retaggio infantile è una nuova apertura alla vita e riporta il poeta al suo narrare di tempi antichi, a Villa Gloria (al tempo degli alleati). E poi la parola torna alla morte di una vecchia compagna:«e ti seguivo vecchia compagna/in grande pace/nessun fumo turbava l’aria chiara//Così pacato/il tiglio nella luce/sentiva il vento/portargli via le foglie» (E torna la stagione del crisantemo). I colori, i frutti e gli alberi, «il fischio della merla dalla macchia» portano l’autunno «anche per chi ostinato/arranca dietro il tempo differente». Il richiamo delle cose conosce il cogito nascente che può vagare, attendere, scegliere, immediatamente legato alle immagini chiare e oneste, mai prive di sfumature ed è certo che il mondo delle rêveries comincia con le sfumature. E, lì,noi stessi troviamo un’illuminazione, sperimentiamo nel leggere una tranquillità naturale: «era caldo il fiato delle cose/sospeso in ghiaccio azzurro dentro l’aria/ed ero teso come la palomba/che vola in banco fitto alla marina.»

Vi è un tempo ne I luoghi persi in cui tutta la natura sembra un’isola incantata e il poeta la racconta e la anima con affetto e nostalgia. L’affetto è per la bellezza di ogni sua creatura e la nostalgia è per la perdita di molti fiori e piante e creature che si son quasi dissolte nel tempo. Gli anni nuovi e veloci anno corroso gli spazi sapienti dove la sorte custodiva la natura. L’ordine ontologico si è incrinato quasi irrimediabilmente e il poeta con timore e tenerezza ne prende atto.

Nel tempo che precede vi è la nominazione dettagliata della Bellezza della Natura e tutta la sua anima si fa incandescente. Tutto sembra essersi ricomposto in nome della Bellezza e della Verità delle cose ma un male grande attende ancora il poeta: il dolore per il grave autismo del figlio Jacopo. E così di pari passo alla straordinaria fascinazione dei luoghi cammina il dolore per questo figlio.

da La giostra

[ … ]

figlio che giri solo
nella giostra,
quegli altri la rifiutano
così antica e lenta,
ma il padre t’aspetta,
sgomento ed appartato
dietro il tronco,
che il tuo sorriso mite
t’accompagni
nel cerchio della giostra,
nella zattera dove stai
senza compagni

E poi la parola culla il ricordo della madre al lavatoio: «gelano le tue mani/bianche, non adatte/ai campi, alle fatiche,/fragile la tua pelle/e così chiara,/più d’ogni altra donna/delicata». Per cogliere la realtà del mondo è necessario trasmettere quel che si vede e qui il ricordo non esprime una rêverie solitaria ma l’immagine tenera e lucida del sognatore che salta tra i «panni del lavatoio» come raganelle». E «tornano i fiordalisi,/l’azzurro stelo mischiato/al rosso del papavero,», all’animo umano. Ancora una volta la Natura si umanizza Nel folto dei sentieri e in Campi d’ostinato amore. Qui l’io primigenio resta giovane e si intreccia all’io maturo e insieme guardano con occhio lucido e sereno il contraddittorio del mondo, quello di una vita passata a contemplare la Bellezza dei luoghi e a resistere attraverso essa stessa alle ferite che la vita provoca naturalmente. La parola del poeta si fa risorsa che supera ogni limite e ogni diminuzione. L’anima si fa principio di rêveries profonde, l’essenza di quelle acque addormentate che la risacca scuote e un «animismo studioso» conferisce realtà alla metafora.

Rossella Frollà

 
 
In copertina foto di Serena Campanini-Elisabetta Baracchi