Speciale Umberto Piersanti: L’isola tra le selve. Poesie scelte 1967-2024

In occasione della presentazione di L’isola tra le selve. Poesie scelte 1967-2024 di Umberto Piersanti (Marcos Y Marcos, 2024) al Salone del Libro di Torino (Qui le presenze dei libri e dei redattori di Laboratori Poesia) domenica 18 maggio, Pad. OVAL Sala della Poesia di Pordenonelegge, a cura di Claudio Damiani, la redazione per l’interessamento di Federico Migliorati, Rocio Bolaños e Rossella Frollà omaggiano il poeta urbinate con uno speciale in tre parti: Una lettura del libro Marcos Y Marcos, una traduzione (QUI) e una riflessione (QUI).

 
 

Il segno dell’esistenza che si trasforma nel mito, in un ancestrale divenire per cui sogni e ricordi coincidono nel tempo ormai alle spalle. In Umberto Piersanti (1941) l’esperienza vissuta offre plurimi motivi di osservazione portando in evidenza taluni topos necessari, fondamentali: lo si registra bene in L’isola tra le selve, la corposa antologia che Marcos y Marcos ha dato alle stampe poche settimane fa e che racchiude una pregiata selezione di versi composti tra il 1967 e il 2024, con prefazione affidata all’ottimo Massimo Raffaeli e nota del curatore di collana Fabio Pusterla. Quasi sessant’anni di vorace, intensa, rabdomantica scrittura poetica, priva di orpelli o di autocelebrazioni, fitta di rimandi a travagli, riscosse, visioni, reminiscenze e all’immancabile patrimonio naturale che popola e costella larga parte del mondo di questo ch’è uno degli ultimi grandi poeti lirici della nostra Italia. Il tempo differente così come I luoghi persi per tacere de L’urlo della mente sono espressioni che hanno assunto in e per Piersanti il valore di una testimonianza vieppiù insostituibile a mano a mano che i giorni s’assommano: in essi infatti rinveniamo ciò che sta oltre la semplice percezione, i mondi dimenticati dai più che l’autore recupera (alla memoria, alla vista, all’immaginazione) e i sentimenti e le azioni del cuore, nella gioia, nell’eccitazione, nella tregenda. È un lungo ventaglio di storie all’interno della più intima storia personale quella che l’antologia ricostruisce offrendo altresì uno spaccato dell’Italia, tra gli echi del secondo conflitto mondiale agli ardori studenteschi del Sessantotto allo sbarco sulla Luna, mentre si snodano gli accadimenti di una vivacissima, feconda storia personale ricolma di amori, amicizie, delusioni e centrata, negli ultimi decenni anni sulla vita del figlio autistico Jacopo. Anche per questi come per tutti il “dono della nascita” è fermo immagine icastico, seppur nella sofferenza di un tempo che è diverso dagli altri (“non sei come loro, non gli somigli”, “tu straniero anche dentro il mondo”), costretto in un limite fisico-mentale a cui l’autore fatica ad approcciarsi, a penetrare, quel tempo che, al postutto, “tutto dissolve e muta”. Come in Borges anche in Piersanti si costruisce una biblioteca-mondo, un vorticoso affastellarsi di immagini-icone che alimentano la memoria irredenta (“tenace, a ostinarsi a dare un senso a ogni cosa”) e il mito in un’osmosi tra realtà ed epica. Egli sa che la scrittura non è salvifica poiché è figlia di sé stessa e dell’uomo dunque fragile, insicura, perennemente in bilico, come ci ricorda un verso: “La poesia attende la fine dell’esilio nel tempo dell’incubo”, contenuto nella sua prima raccolta da nemmeno trentenne. Una lucidità spietata frammista a una vena lirica e a un’onestà intellettuale che sono rare da rintracciare in questo nostro mondo dominato dai versi smozzicati dell’io nella sfera digitale, preda di una sempre più potente e pervasiva intelligenza artificiale. L’autore urbinate, ma da oltre un decennio di casa a Civitanova Alta, si muove da “pellegrino meglio mendicante di sensazioni” e ben conosce la durezza del nascere (che necessita di erodere “la dura crosta della terra”) e del vivere, alla ricerca del negativo di sé custodito nella lontana giovinezza, sdimentico di una nuova purezza. Elemento precipuo nella poetica dell’antologia è il silenzio, un grande manto che tutto copre, che si ricerca ma da cui si è altrettanto impauriti poiché compagno della solitudine, della morte, della distanza temporale e spaziale, dell’inutilità di ogni voce che grida nel deserto. Ma è altresì il contenitore degli sguardi più acuti, sui vasti Appennini, sulle amate Cesane, su Villa Gloria e i vicoli dell’Urbino ventosa di pascoliana memoria a cui pure Piersanti è debitore, nella città dai “mattoni color miele”: nell’assenza di rumore tutto acquista un valore, un significato più nostalgicamente vero, tutto è “istante fatto eterno e luminoso” e si nutre di una tensione verso l’assoluto, verso l’infinito, còlto nel semplice fiore che, incistato nelle erbe, è “memoria incarnata nella terra”. Resistente e resiliente il poeta non ha altro modo di incedere verso il futuro (qui la testimonianza più lucente, più ficcante) che suggendo da ciò che non è più, ma è sempre: “Io quei giorni/ me li porto dentro/, il cammino mi fanno/ più leggero”.

Federico Migliorati

 
 
Solo un anno è passato (a mia madre)
 
era i primi di maggio, un pomeriggio limpido
come succede in tutta la stagione una volta o due,
solo un anno è passato, ma tu eri viva
e camminavi svelta per le macchie
madre com’eri viva, come parlavi forte
staccavi le vitalbe da ogni ceppo
sprofondavi nei greppi senza paura,
poi risalisti con nei pugni stretti
i bei germogli verdi da cucinare
gli occhi tuoi azzurri, quelli della Fenisa
anche se alla luce sono inclini
di rado li avevo visti così chiari
 
la strada di quel giorno tutta bianca,
al margine dei colli, sotto i confini,
s’assottiglia nei campi, quasi scompare
torna larga tra l’erba, ma separata
dal tempo che ha sopra la sua dimora
 
era ormai sera, vidi l’orchidea
altissima, bagnata dalla luce,
morbida, che arriva quando imbruna,
quante volte l’hai colta nel tuo fosso
e davanti allo specchio ti piaceva
intrecciarla alle ciocche luminose,
rosso-castane, che scendono alla vita
tu non invecchi – e rido, mentre sali
alla rossa orchidea, la stacchi piano
domani la metterai al davanzale
nel grande vaso verde che ti è caro
ora davvero sono solo
e nulla posso per il figlio lontano,
ci fu un tempo felice nella casa
col padre e le sorelle, tu ci guidi
poi la vita e la morte ci disperse
rimanesti con me, ad aspettarmi
ti ringrazio madre per quei giorni.
 
 
 
 
Al cinema con Jacopo
 
sì, i nomi dei cartoni,
anche i più strani,
a tre anni Jacopo conoscevi,
Gastone e Archimede.
La mucca col grembiule
che non ricordo,
e poi i colori
oggi del tutto persi,
fucsia ch’è solo nelle stoffe
e in qualche fiore,
e con gli altri giocavi
in quel giardino
in altro tempo perso,
in altri spazi
 
oggi, tu nella grande
sala li sovrasti,
ma la tua voce
simile negli anni
chiede le patatine
come sempre,
dentro l’uovo
urla la sorpresa
 
ma non sei come loro,
non gli somigli,
quel cieco borbottio ti sprofonda
in un altrove
sordo e smisurato,
e poi sei grande
paghi il biglietto intero,
lo sconto è mio,
padre invecchiato,
le tue corse improvvise
più non raggiungo,
ridono gli altri padri,
giovani, nei giacconi,
io e te forestieri
in questa sala,
e tu straniero
anche dentro il mondo.
 
 
 
 
La biscia
 
scese il biroccio al pozzo
c’era la neve, un filo appena
bianchissimo oltre il verde, sui confini
stridono i raggi azzurri nell’erba molla
manda la foglia odore
di muschio e raganella, senti i tonfi
pendono le vitalbe come corde
di lì vola la biscia ch’è in amore
fanno un gran cerchio in aria
poi non sai, dov’entrino nel buio
per figliare
lui è nell’acqua, di tonde piume
la ricoprono i pioppi
sempre
nel tempo che trapassa
spargeva il vento
prende forma la rosa
era dolce la vita nella conca
vede la serpe
nera tra fiori e panni
la schianta con la canna
la fa a pezzi
uno scivola in acqua
e ci sprofonda
ma rinasce nell’acqua
torna per sempre
s’affaccia dalle scale
e sullo specchio
va’ alla fonte azzurra
entra con tutti i panni dentro l’acqua
tieni sotto la testa fin che puoi
e mai potrà più uscire dalla terra
nonna, la fonte è così lontana
mi persi tra le macchie
non l’ho raggiunta
già la nottola passa silenziosa
fra i tronchi che si fanno neri
quando mi stendo in terra
a riposare
viene allora la serpe, sale sul masso
diventa una persona, morta come
le anime che vedi dentro il bosco
c’era polenta rossa, con il lepre
e il mosto era dolce da succhiare
ma lui pensa alla serpe
essa di sopra, tutta la notte
aspetta finché non sale
ma chi ha perso la fonte
l’acqua che sola
impedisce alla biscia di tornare
è meglio che s’abitui alla presenza