POESIA A CONFRONTO – Madrigali

 
 

POESIA A CONFRONTO – Madrigali
GAMBARA, TASSO, D’ANNUNZIO, MONTALE

 
 

Da Wikipedia: “Il madrigale è una composizione musicale o lirica, in maggior parte per gruppi di 3-5 voci, originaria dell’Italia, e diffusa in particolare tra Rinascimento e Barocco.” […] “La forma originale del madrigale, assai praticata nel secolo XIV, era costituita da una successione di endecasillabi, di numero variabile da sei a quattordici, ripartiti in brevi strofette con vari incontri di rime e comunque sempre con una rima baciata finale.”

A questo genere, con una selezione di testi, è dedicato il confronto di oggi, con autori sia della tradizione rinascimentale in cui questo genere raggiunse amplissima popolarità e sviluppo, sia con rivisitazioni più moderne in cui, come vedremo, molte delle prescrizioni tecniche sopra indicate risulteranno violate, con una più ampia libertà metrica.

Partiamo con Veronica Gambara, donna fra le prime a rompere il monopolio maschile nella poesia. Il suo madrigale, dedicato al marito, ricade nel canone della poesia amorosa di matrice petrarchesca, di cui è evidente l’influsso. Tutta la composizione ruota sugli “occhi” dell’amato descritti con aggettivi sia elogiativi (“lucenti e belli”, “felici”, “beati e cari”) sia contrastanti fra di loro (“lieti, vaghi, superbi, humili, altieri”) a sottolineare come l’amato sia “vita e morte” per l’autrice, bene irrinunciabile. L’alternanza di endecasillabi e settenari contribuisce a variare la musica, dominata da un’idea di leggerezza e grazia.

Maestro di madrigali fu anche Tasso, di cui proponiamo due testi. Nel primo la natura diventa testimone della malinconia dell’autore per la “partita” della donna amata, “vita della mia vita”: notte, stelle, luna, vento sono partecipi di questo cruccio, lo rappresentano con chiarezza e sobrietà d’immagini. Lo stesso vale per il secondo testo dominato dal silenzio degli elementi naturali, funzionale alle “dolcezze amorose”, da vivere nel segreto della passione, perché “sien muti i baci e muti i […] sospiri” degli amanti. Una composta armonia, la grazia musicale dei versi, l’immediatezza cromatica e sonora caratterizzano le composizioni, rendendole piccoli gioielli del genere.

Nel caso di D’Annunzio il madrigale alcionio dedicato all’estate è l’occasione per una riflessione sul Tempo: lo scorrere della sabbia nella mano, l’evidenza del giorno che diventa sempre più “breve” a fine estate, la minaccia dell’”umido equinozio” sono traslati per la precarietà dell’esistenza. Il poeta si trasforma in misura tangibile di questa brevità, il suo cuore si trasforma in “clessidra”, “la mano” in “urna”, la stagione che declina è una metafora evidente della morte, “ombra d’ago in tacito quadrante”.

Montale riscrive completamente il genere nei suoi “Madrigali privati” dedicati a “Volpe”, alias Maria Luisa Spaziani: si viene meno alla gabbia metrica, pur mantenendo nei contenuti consonanza con il genere, oltre che nel linguaggio che calca alcuni moduli amorosi classici (“mandorle tenere degli occhi”, “pronti stupori”, “le ali”, “fronte incandescente”). Le similitudini con il mondo animale (“volpe”, “torpedine”, “donnola” in bisticcio con “donna”) servono a rappresentare la personalità indomita della donna, svelarne il mistero (”la falcata / prodigiosa”, “l’onda luminosa”) indecifrabile ai profani (“i ciechi non ti videro”), mistero che è sfuggente (“con chi dividerò la mia scoperta” si interroga il poeta), come la donna di cui si parla e che genera “salvezza” e “perdizione” insieme (“oro che porto”, ma anche “brace che […] stride”). Insomma, uno sconquasso miracoloso.

 

Fabrizio Bregoli

 
 
 
 
VERONICA GAMBARA
(1485-1550; Da Le Rime, a cura di A. Bullock, Firenze, Olschki, 1995)
 
Occhi lucenti e belli
Com’esser può ch’in un medesmo istante
Nascan da voi sì nove forme, e tante?
Lieti, vaghi, superbi, humili, altieri
Vi mostrate in un punto, onde di speme
E di timor m’empiete,
E tanti effetti dolci, acerbi e fieri
Nel cor arso per voi vengono insieme
Ad ogn’hor che volete.
Hor, poi che voi mia vita e morte sete.
Occhi felici, occhi beati e cari,
Siate sempre sereni, allegri e chiari.
 
 
 
 
 
 
TORQUATO TASSO
(Da Rime – Edizione rivista dall’autore nel 1593)
 
Qual rugiada o qual pianto,
quai lagrime eran quelle
che sparger vidi dal notturno manto
e dal candido volto de le stelle?
E perché seminò la bianca luna
di cristalline stille un puro nembo
a l’erba fresca in grembo?
Perché ne l’aria bruna
s’udìan, quasi dolendo, intorno intorno
gir l’aure insino al giorno?
Fûr segni forse de la tua partita,
vita de la mia vita?
 
 
***
 
 
Tacciono i boschi e i fiumi
e ‘l mar senza onda giace;
ne le spelonche i venti han tregua e pace,
e ne la notte bruna
alto silenzio fa la bianca luna;
e noi tegnamo ascose
le dolcezze amorose:
Amor non parli o spiri,
sien muti i baci e muti i miei sospiri.
 
 
 
 
 
 
GABRIELE D’ANNUNZIO
(Da Alcyone – Treves, 1903)
 
LA SABBIA DEL TEMPO
 
Come scorrea la calda sabbia lieve
per entro il cavo della mano in ozio,
il cor sentì che il giorno era più breve.
 
E un’ansia repentina il cor m’assalse
per l’appressar dell’umido equinozio
che offusca l’oro delle piagge salse.
Alla sabbia del Tempo urna la mano
era, clessidra il cor mio palpitante,
l’ombra crescente d’ogni stelo vano
quasi ombra d’ago in tacito quadrante.
 
 
 
 
 
 
EUGENIO MONTALE
(Da La bufera e altro – Neri Pozza, 1956)
 
Da MADRIGALI PRIVATI
 
Se t’hanno assomigliato
alla volpe sarà per la falcata
prodigiosa, pel volo del tuo passo
che unisce e che divide, che sconvolge
e rinfranca il selciato (il tuo terrazzo,
le strade presso il Cottolengo, il prato,
l’albero che ha il mio nome ne vibravano
felici, umidi e vinti) – o forse solo
per l’onda luminosa che diffondi
dalle mandorle tenere degli occhi,
per l’astuzia dei tuoi pronti stupori,
per lo strazio
di piume lacerate che può dare
la tua mano d’infante in una stretta;
se t’hanno assomigliato
a un carnivoro biondo, al genio perfido
delle fratte (e perché non all’immondo
pesce che dà la scossa, alla torpedine?)
è forse perché i ciechi non ti videro
sulle scapole gracili le ali,
perché i ciechi non videro il presagio
della tua fronte incandescente, il solco
che vi ho graffiato a sangue, croce cresima
incantesimo jattura voto vale
perdizione e salvezza; se non seppero
crederti più che donnola o che donna,
con chi dividerò la mia scoperta,
dove seppellirò l’oro che porto,
dove la brace che in me stride se,
lasciandomi, ti volgi dalle scale?