La musica perduta degli antichi


 

Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì?
Ci sono i nomi dei re, dentro i libri.
Sono stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?

È la prima delle celebri Domande di un lettore operaio, come recita il titolo del bellissimo carme scritto dal poeta e drammaturgo tedesco Bertolt Brecht, qui nella mirabile traduzione di Franco Fortini. Nei suoi versi, Brecht prendeva di mira l’ipocrisia di una ricostruzione del passato che registra solo i nomi dei grandi e dei potenti, dei sovrani e dei condottieri, mentre cancella i tanti sfruttati la cui anonima fatica ha reso possibile quella grandezza. Conosciamo in effetti i nomi di molti re di Tebe, perché nell’universo dei racconti greci la città dalle sette porte è ricca di miti: da Laio a Edipo, da Eteocle a Polinice, da Creonte ad Antigone. Ma certo nessuno di loro aveva trascinato con le sue braccia le pietre ciclopiche che formavano quelle antichissime mura.

In realtà, il mito antico aveva una risposta molto precisa alla domanda con cui si apre la poesia di Brecht. Come racconta il tragediografo ateniese Euripide nelle sue Fenicie,

alle nozze di Armonia intervennero i celesti,
e grazie alla cetra le mura di Tebe e il bastione
sorsero al suono della lira di Anfione,
nel mezzo del passaggio tra i due fiumi,
là dove Dirce irrìga la pianura
nutrice d’erba lungo il corso dell’Ismèno.

Le mura di Tebe, insomma, si erano costruite da sole. O meglio, le pietre erano andate spontaneamente a disporsi ciascuna al proprio posto, cullate dal suono che proveniva dalla lira di Anfione. Non si trattava, naturalmente, di uno strumento come tutti gli altri, né di un musicista qualunque: Anfione era uno dei tanti figli che Zeus aveva concepito da donne mortali nella sua lunghissima carriera di tombeur de femmes; quanto alla lira, si diceva che fosse proprio quella che il dio Ermes per primo aveva costruito, quando era ancora poco più che un neonato, per poi offrirla in dono allo stesso Anfione. Ma le storie che circolavano intorno a quel remoto cantore erano tante: che fosse lui stesso l’inventore della lira, o il primo ad aggiungere tre nuove corde alle quattro possedute originariamente dallo strumento, o ancora che avesse portato in Grecia l’armonia dei Lidi, languida come la regione dell’Asia dalla quale proveniva; che non solo le pietre, ma anche gli animali lo seguissero mentre cantava, o ancora che fosse stato il primo a innalzare un altare a Ermes e che per questo il dio lo avesse gratificato con il dono di una lira d’oro. Si diceva anzi che le porte della città di Tebe fossero sette proprio perché altrettante erano le corde dello strumento utilizzato per costruirle, come se il progetto di quella meraviglia urbanistica fosse stato scritto sul pentagramma suonato da Anfione.

Agli occhi smaliziati dei moderni, questa storia delle pietre che si muovono da sole, seguendo il ritmo scandito da una lira, sembra forse un po’ buffa, degna della fantasia di certi cartoni di Walt Disney; e magari potremmo pensare, sedotti dai versi di Brecht, che si tratti dell’ennesimo trucco della storia, quella che mette nei libri solo i nomi dei re mentre dimentica la fatica degli sfruttati. In realtà, quello che il mito di Anfione vuole esprimere è un dato culturale molto serio e profondo: la straordinaria importanza che i Greci attribuiscono alla musica, il potere che ad essa riconoscono di influire sulle cose e sulle persone; un potere così forte da agire persino su oggetti inanimati e per definizione senza vita quali sono, appunto, le pietre.

Nell’esistenza quotidiana dei Greci, in effetti, la musica è ovunque: si suona durante i banchetti come durante le cerimonie religiose, nelle feste come alla vigilia delle battaglie, e la musica accompagna le esecuzioni poetiche tanto quanto gli spettacoli teatrali. È dunque una grave perdita quella delle note che modulavano testi meravigliosi, che noi siamo condannati a leggere mentre gli antichi hanno avuto il privilegio di ascoltarli. Ne era consapevole uno straordinario poeta che fu anche un provetto conoscitore del mondo antico, Giacomo Leopardi: il quale in uno dei suoi carmi più belli, La sera del dì di festa, si chiedeva malinconicamente, a proposito dei Greci e dei Romani, «or dov’è il suono di quei popoli antichi?». Una domanda molto pertinente: abbiamo le parole di quelle antiche civiltà, custodite nei libri che sono giunti a noi varcando l’abisso dei secoli, possiamo ammirare le loro tracce monumentali, ma abbiamo perduto per sempre la musica che accompagnava in ogni momento la vita di quegli uomini e abitava le loro città.

Mario Lentano