La Battaglia di Alessandro – Gabriele Tinti

Dal momento della sua scoperta nella Casa del Fauno (1831), la decorazione musiva pavimentale della Battaglia di Alessandro è stata oggetto di indagini archeologiche di ogni tipo che non hanno fatto ancora luce su quale sia l’episodio rappresentato (la Battaglia di Guagamela – 331 a.C. – o di Isso – 333 a.C.), quando l’originale riprodotto dal mosaico sia stato eseguito e da chi (Paolo Moreno nella sua suggestiva indagine storico artistica identifica l’autore della pittura originale in Apelle invece del comunemente ipotizzato Philoxenos di Eretria) e, infine, quando sia stato realizzato il mosaico e da dove questo provenga.

L’urto della battaglia è rappresentato nel momento cruciale in cui “Alessandro, desideroso di rimediare personalmente alla sconfitta dei suoi, si lanciò contro Dario in persona con lo squadrone reale e gli altri cavalieri scelti” (Diodoro Siculo). L’imperatore persiano viene colto nel mentre arretra preso dal terrore, riuscendo a salvarsi la vita soltanto perché “i migliori, i più nobili” dei suoi cavalieri “si lasciarono ammazzare tutti” (Pausania). I loro cadaveri lasciati sul campo di battaglia ritardarono l’inseguimento come anche la fuga “poiché le ruote (dei carri n.d.a.) s’inceppavano guazzando in quella densa poltiglia, i cavalli annaspavano, trattenuti e sommersi dalla massa dei cadaveri o s’impennavano disorientando l’auriga” (Plutarco).

Ci siamo: attacca,
irrompe, avanza
dappertutto infuria
la battaglia e il sangue
il sangue è ovunque
versato fluisce
tinge la radura
confonde l’aria
resistiamo a fatica
non riusciamo
a contrattaccare
devo rimanere calmo
«Rimani calmo!»
devo rimanere calmo
«Rallenta!»
«Prendi tempo!»
Mi scuoto ma i miei
sono terrorizzati
urlano di panico
uno è ferito
è perso
trafitto guarda
sé stesso
nell’al di là
del suo scudo
lontana brucia
una melodia
d’ossa battute
tutto rallenta
frena, si blocca
tutto si comprime
vorrei oltrepassare
questa pianura
uscire vivo da qui
spazzare via questo sole
ma sento incombere
la sventura
cattivi presagi
affollano i miei pensieri
perdo il controllo
decido di indietreggiare
«Presto! Occorre far presto!»
abbaio, urlo
il carro ubbidisce
fa fatica però
urta, s’impenna
sulla massa di cadaveri
si trascina sconvolto
sulle ferite aperte
sui corpi degli alfieri
arretriamo sconfitti
le teste mozzate
cercano soltanto
un po’ di quiete
i soldati vacillano
il vento si alza piano
l’emorragia è un’impronta
profonda nel terreno.

da Rovine, Gabriele Tinti (Scheiwiller, 2021)

 

Pothos

Pothos (Πόθος) è la personificazione del desiderium amoroso e del rimpianto, del senso di nostalgia. Nel mito Pothos era considerato figlio di Afrodite e, come tale, accompagnava la dea nelle rappresentazioni figurative. In epoca classica ed ellenistica il suo culto era celebrato sanctissimis caerimoniis, a Samotracia (Plin., Nat. hist., XXXVI, 25). L’analisi delle numerose repliche delle sue raffigurazioni in epoca romana e delle fonti letterarie (Paus., i, 43, 6 e Plin., Nat. hist., XXXVI, 25) hanno condotto gli studiosi ad attribuirne l’originale a Skopas creatore appunto di un celebre gruppo con Pothos, i fratelli Eros e Himeros, e la madre Afrodite scolpito per il tempio di Afrodite a Samotracia ed a Megara. Per la complessità della concezione e le suggestioni prassiteliche e lisippee, l’opera viene identificata come una delle ultime opere dell’autore anche se alcuni studiosi attribuiscono il tipo in oggetto ad uno “Skopas minore”.

Animae antiquae umbra ego sum,
effigies, vox,
fletus gemituumque simulacrum,
fati imago.
Desideriorum omnium pupulus ego sum,
fixus vultus,
mortuorum incendium.
Ager ego sum,
altae herbae, nigrae terrae
praeda crudelis.

 
 
Io sono l’ombra, la
copia, il rumore
 
d’un antico respiro,
lo spettro dei singhiozzi,
 
l’imitazione del destino.
Io sono il burattino
 
di tutti i rimpianti,
lo sguardo scolpito,
 
l’incendio dei morti.
Io sono il campo arato,
 
la preda crudele dell’erba
alta, della terra nera.

 

da Rovine, Gabriele Tinti (Scheiwiller, 2021)

Gabriele Tinti

 
 
La foto di copertina è di Dino Ignani