Fernando Lena

Bozza automatica 15

 

Intervista di Michele Paoletti a Fernando Lena

 

Fernando Lena è un autore dotato di una preziosa capacità di modellare non quadri né istantanee, ma veri e propri scenari che pulsano di vita, colorati con le tinte forti dell’amarezza e dell’ironia. In questi testi si respira l’aria aspra di sangue della sua Sicilia, e si avverte l’urgenza dell’autore di voler stringere forte il legame col passato del quale rimane soltanto qualche eco. Così delle visite domenicali all’amico in carcere (N.d.A.) rimangono le macchie di gelato sulla camicia e i colpi di tosse dell’auto che si allontana mentre la vita scopre le sue carte e ci spinge quasi a scegliere tra l’idea della resurrezione/ e la constatazione verticale dell’oblio.

 

Cosa spinge Fernando Lena a tornare nell’infanzia dei soldatini?

Diciamo che un po’ tutta la mia poesia è attraversata da quell’urgenza infantile di porre domande che si manifestano come zone d’ombra. Nonostante però nei miei versi a volte il peso della tragicità opprime il dettato c’è sempre in contrapposizione uno sguardo stralunato, una sorta di ingenuità che si confronta con tutte le vocazioni del male e quasi ne diventa una partitura teatrale dove confluiscono brandelli di realtà e una analisi a posteriori dei vari fallimenti. E comunque il focolare della mia creatività è stato abbastanza influenzato dal mio periodo infantile e per questo nel testo in cui citi questi versi una doppia voce o registro determina la mancata presenza di un codice familiare su cui poter formulare una variante d’affetti, quella consapevolezza di una libertà espressiva. Così, in ognuno di questi testi la presenza dell’abbandono diventa di fatto un lungo respiro, il quale procrastina l’affanno di tutte le figure retoriche ed inquiete che provo a tracciare fondamentalmente per guarire le ferite ricevute. Non a caso il linguaggio diventa carne e bersaglio, un ingorgo di realtà che porta ogni soggetto alle porte dell’oscuro. Ma se proprio devo rispondere  a questo ritorno (all’infanzia) dico che il mio non è un transito a posteriori ma una vocazione che fa parte del mio essere da sempre figlio e inquietamente in cerca di una collocazione nell’universo dei sentimenti.

 

La presenza ematica della morte genera individui indifferenti, cui basta una goccia di limone per disinfettare la coscienza, ma cosa succede quando la morte diventa un evento privato?

Non nascondo che se dovessi sottoscrivere una metafora ricorrente nei miei versi, quella del sangue è la più riscontrabile. In parte dipende da una giovinezza vissuta nell’ossessione di un mostro che per sfamarsi usava come filtro questa sostanza ematica, e quindi il fluire di quel passato, la violenza con cui l’esistenza di quegli anni ha generato fantasmi, in qualche modo colloca il mio poetare in una sorta di mantra terapeutico. Nei miei testi eppure la morte oscilla sempre tra un evento privato e quello generazionale, specie in questi ultimi testi dove viene a galla la luttuosità di una terra (e dunque parlo della Sicilia) all’apparenza rafforzata da una luce schiarente che punge la bellezza dei dettagli, mentre in realtà celebra sotterranea un processo d’oscurità, una chiusura emozionale per non mostrare certe fragilità. Da qui nascono alcuni paradossi poetici come quelli citati da te con i versi in alto, che nonostante tutto trovano un equilibrio nella capacità di saper abitare il caos nella consapevolezza che nell’incomprensibile la ragione d’essere è solo un aspetto dettato dall’istinto. È anche vero che questo nuovo libro (Black Sicily) ancora in fase di preparazione, dialoga in primis con la figura di un padre oramai scomparso: ma è nell’atto in cui la morte genera questo evento privato che si risolleva la memoria e prende vita in essa l’urgenza della parola, quella poeticità degli attimi memorizzati. Si avverte cosi, in questo scambio generazionale l’idea che la morte, e parlo di un contesto territoriale come quello siciliano, abbia specie negli anni ottanta e novanta creato individui indifferenti i quali poi avrebbero indicato ai propri figli l’alternativa della fuga. Purtroppo molti di quei figli hanno scelto il viaggio solo attraverso l’artificio delle sostanze. Quindi se attraverso la morte, la poesia diventa racconto, coscienza di un popolo incapace di trovare in essa le radici della propria libertà, dopotutto crea un linguaggio d’azione, di delucidazione e magari quel fermento che potrebbe provocare nel lettore una autoanalisi su quanto sia coinvolto in questa società dell’indifferenza.

 

Tradire è diventata un’abitudine. È una forma di sopravvivenza?

Questa parola mette in luce diversi aspetti, ma io vorrei porre la mia prima riflessione sul tradimento che facciamo a noi stessi, quando murandoci d’egoismo  c’inventiamo un habitat civilmente dignitoso. Ma optando sul tradimento poetico direi che a volte è anche dignitoso. In fondo perché un poeta non dovrebbe ricercare nuovi linguaggi in funzione delle tematiche che vorrebbe scandagliare? E soprattutto in tutte le varie forme che ha a disposizione perché non potrebbe trovare una lingua universale, popolare, meno forbita di aggettivi e quant’altro, eppure pensante con una  tramatura semantica, intessuta di un rigore civile? E qui mi vengono in mente poeti come Raffaello Baldini, Luigi Di Ruscio, Maria Marchesi ecc…a quel punto tradire in poesia sarebbe come dire a se stessi di non essere mai al di sopra della banalità che ci circonda, perché c’è suono, colore, armonia anche dove la parola è un’arma per l’incenerimento. Quindi se per certi aspetti tradire potrebbe sembrare una forma di sopravvivenza, nel deserto della psiche è un modo di scoprirsi per mettersi a nudo di fronte alle tentazioni dell’incognito, e forse alla fine questo processo di identificazione si potrebbe anche chiamarla rivoluzione. Nel caso di questa parola-pensiero usata alla fine del mio terzo testo, è chiaro che se io nelle mie varie esperienze non avrei tradito le mie convinzioni sarei rimasto fallibile a me stesso, in special modo se non avrei avuto il coraggio di varcare certe zone d’ombra. Rischiare credo dunque sia il linguaggio più stupefacente che una esistenza creativa dovrebbe avere come compito per non lasciare che l’arte si interiorizzi nella monotonia della bellezza. Perché forse non c’è nessun valore assoluto o canone che possa distinguere il bello dal brutto, la disperazione dalla gioia, i poeti dalla loro opera. Tutto accade per essere rivelato ed è quello che cerco di fare nella mia poesia, provo ad entrare nella disperazione e altrettanto nella gioia della quotidianità attraverso una epica strampalata, non fatta da eroi ma piuttosto da eroinomani, non graziata da ninfe ma piuttosto da ninfomani, cerco nella tragedia dell’uomo qualunque quel gesto invisibile che mi aiuti a tracciare con l’immaginazione un mondo vivibile, un futuro a caccia di fantasmi, che a questo punto nella società odierna sono gli interlocutori più veri, dopotutto chi mi fa più paura, non è chi tradisce mostrandosi fragile a se stesso, ma chi respira la perfezione servendosi delle menzogne come fosse ossigeno.

Per concludere questa ultima domanda (e questa breve intervista) voglio che siano le parole di un poeta polacco, uno dei più importanti della sua generazione, a solleticarci il pensiero, lui è Adam Zagajewski e lo stralcio fa parte di un libro di prose dal titolo non a caso Tradimento.

“Vivere significa tradire quanto abbiamo di più prezioso. L’amore tradisce l’amore perché è inevitabile che sia meno bello del sogno dell’amore. Gli eroi sono vacui e i geni pigri. I potenti, perfino i migliori, si trasformano in mostri. I preti sono pieni di boria. Perfino gli assassini cercano una qualche forma di plauso. Dei suicidi Hebbel diceva: chi può spararsi non si impicca. I commercianti imbrogliano sul peso, i saggi sulle argomentazioni. Sebbene celebrino la gioia, i poeti sprofondano nella disperazione. E lo sa che razza di gerarchia vincola i mendicanti? Le belle donne si pitturano la faccia. I pastori protestanti torturano i figli. I banchieri rubano l’oro. Vivere significa tradire, non reggere ai valori, alle aspettative.”

 

 

 

BLACK SICILY

(41 bis)

 

 

La domenica ogni tanto veniamo a trovarti

portandoti una tuta nuova:

in questo cimitero di mura

l’attività fisica

lascia che il corpo non smarrisca

la contropartita con le ombre.

Poi ci si parla

come facevamo sotto la luna

privi di quella rotta

che civilmente non abbracciava

le nostre esistenze mortalmente laconiche,

piegato il respiro all’hascisc

il cielo era indifferente

e passava un niente affinché tu

mettessi un’altra follia nel tamburo.

 

E così mentre vieni risucchiato dai corridoi

quando tutto è scaduto nell’ora delle visite,

anche questa volta la balistica del pensiero

continua a non mentire: hai mirato, oltraggiato

lasciando che la rosa del sangue

non fiorisse il tempo della meraviglia.

 

Una tosse di auto,una gola di goal,

il gelato che macchia una camicia di ricordi:

ogni volta ci rimane tutto questo

con la semplicità delle sconfitte

l’io approssimato all’incubo.

 

 

 

 

 

La spii dai balconi

di questa periferia

murata dal silenzio

la lentezza delle specie

che di disumano ha

un colpo sordo di pistola

ogni tanto per regolare

l’antico canto del rispetto.

 

C’è un po’ di simmetria però

in tutto quello che facciamo

per non fare niente a parte

annusarci nel mutismo

mentre esplode un altro

autunno di sangue.

 

Lo Zen è un quartiere pauroso,

ma nulla di eccessivamente violento

provoca dei brividi quando la morte

la pratichi ematicamente

tutti i giorni come un mantra:

a volte poi si mette qualche goccia di limone

per disinfettare la coscienza.

 

 

 

 

 

(prospettive per una via Crucis)

 

La casa di via gen. Cascino

non esiste più adesso

o meglio ha un nuovo inquilino

e neppure noi ci siamo

per quelle scale che rotto l’ascensore

erano una via crucis per il purgatorio.

E così di colui che oggi

ti dice che un po’ si sale

e un po’ si scende negli anni

viene la voglia di dubitarne

anche perché nessuno

rimane mai a metà

tra l’idea della resurrezione

e la constatazione verticale dell’oblio.

 

Sarei tornato chissà  quante volte

nell’infanzia dei soldatini

disposti al fuoco dell’immaginazione

ma non è così che le battaglie

diventano il ricordo di una ferita,

non sono certi pomeriggi il confine

tra la fragilità che cerca un abbraccio

e la depressione di un genitore

stretto nei suoi demoni.

Poi ho pensato d’adulto all’improvviso

solo per non piangere nelle preghiere

di una nonna innamorata di un Dio

pratico fino alla pietà,

alla stessa maniera di Giuda

ho preso l’abitudine di tradire

per non rimanere fallibile a me stesso.