Dammi tue notizie e un bacio a tutti, Valerio Grutt (Interno Poesia, 2018).
Anarchico, in ascolto, autodidatta come Whitman, dinamico, sempre on the road, Valerio Grutt nasce “di faccia” a Napoli, nel 1983, come ci racconta nel suo ultimo libro Dammi tue notizie e un bacio a tutti (Interno Poesia, 2018). Questa raccolta sonda “il segreto del male” per ricavare una cura dal supplizio, un nutrimento che si riversa tutto nella poesia stessa. La poesia di Valerio Grutt è un terremoto vorticoso di emozioni, di esperienze, di respiri altalenanti e lotte incessanti. L’epicentro è da ricercarsi nell’intimità dello stato di famiglia del poeta. Dopo aver perso suo padre alla tenera età di 11 anni, Grutt deve ora indossare l’armatura da oplita interstellare per difendere sua madre dalla malattia. Il campo di battaglia è una stanza del policlinico Gemelli di Roma, dove a colpi di tosse e conati di vomito si alternano colpi di spada laser e lampi di luce. Il poeta decanta “il tempo/serranda aperta” che diffonde la luce finanche agli angoli più apparentemente irraggiungibili della quotidianità. Ogni persona amata riesce – nolente o volente – a partire, a tornare, o semplicemente a svicolare via attraverso “il tronco rotto della notte”. La luce, però, trova sempre il modo d’infiltrarsi attraverso ogni fessura, di riempire ogni crepa, e di lenire la distanza trasformandola in un ponte. La luce è la lama affilata del bene che alimenta la “spada laser” del poeta, le cui dita sono viste anch’esse come spade nell’atto stesso di scrivere. Grutt incita il verbo della sua scrittura a non restare tale, ma a mutarsi anch’esso in un’arma alimentata dal dolore, capace di trovare il punto debole del vetro e di spaccarlo con una forza tale da raggiungere l’ipocentro del bene: “sappi che ci sarà da domandarsi/il senso di tutto, che alla fine/non ci sarà una vera fine/e capirai che l’amore/era l’unica domanda buona,/l’unica risposta giusta”.
Vernalda Di Tanna
Io sono l’istrione di Aznavour
e tu già lo sapevi
lo hai sempre saputo, per istinto
che quel francese parlava
di tuo figlio. E cantamelo ancora
nella voce di chi mi saluta
nel casino degli operai sul tetto.
Canta sempre con la musica
dei piatti nel lavello, la voce
malinconica di casa.
Le mani di quelli che ami
sono fontane di luce
le tieni strette come appigli
nelle tempeste e nelle cadute.
Le mani di quelli che ami
sono case dove ripararsi
e tubi e cunicoli e cavi
dove corre l’amore
senza fermarsi e rami
che salgono e bucano
nuvole e stelle, sono pane
e minestre, e voli, navicelle.
Le mani di quelli che ami
neanche la morte
te le toglie dalle mani.
Voglio che tu sappia
che non sei qui per caso
e che capiterà sempre più spesso
di salutare le persone che ami
alla stazione, di non rivederle
per settimane e mesi…
Le vedrai cadere
nella voragine dei giorni
e ti verrà da piangere e maledire,
da spaccare le vetrine.
Ma le distanze sono ponti
non possono dividere noi
che abbiamo raccolto la luce
dal pozzo degli occhi, abbiamo
visitato il tronco rotto della notte.
Voglio che tu sappia
che non sei sola mai
e che in ogni centimetro di vuoto
c’è una festa, una moltitudine
e che ogni sorriso viene
-ricordatelo, mi raccomando-
dalla riserva segreta del bene.
Sappi che ci sarà da domandarsi
il senso di tutto, che alla fine
non ci sarà una vera fine
e capirai che l’amore
era l’unica domanda buona,
l’unica risposta giusta.
Questo cuore aperto
può accogliere di tutto:
vetri di bottiglie, diluvio,
radici di albero, intere autostrade,
colate di cemento, costellazioni.
Ci passi senza abbassare la testa
tu e la morte nera, palafitte,
il crollo di una diga.
Questo cuore che aperto
può tenere tutto, trema
come lavatrice nella furia di centrifuga
ed è qui, è tuo.