Alla meta della perdita – Sonia Caporossi

Alla meta della perdita – Sonia Caporossi

foto di Dino Ignani

 
 
 
 
 
 
V.
 
stando solo lui ritrovava
                                                                           semi-innocente
                                la potenza dello sbaglio
e non era stato mai così                                  prossimo
                                alla meta della perdita.
 
 
 
 
 
 
XIX.
 
ora non fugge la militanza della parola
per prolessi orizzontale, torna al senso rivelato
che lo porta alla follia dei suoi vuoti di memoria
 
e ricorda ormai solo l’abito più vero
quando smetteva i panni del diletto
caracollando inerme sulle sue stesse ipocrisie
:: lui la vuole ancora
 
così ritorna intero, pregno e intonso al verso
nel setaccio del suo amore ammalato e senza fiato
«giacché inutili già siamo, senza poi mezze misure:
 
nella moltiplicazione di ogni infausta divisione
nella reduplicazione di ogni mortificazione
non c’è scusa, al giorno d’oggi, all’indolenza del poeta»
 
 
 
 
 
 
XXX.
 
nella corazza indivisa
                       della luce
la primavera allunga le sue fauci malate
«e tu non batti cassa al mio giardino»
 
sulla neve di febbraio, spoglia
come un indistinto atomo malnato
nella reduplicazione mitocondrica
rimangono le impronte
di questo odore che nel vapore perde fiato
 
la nostalgia è un arrocco
              un meccanismo di difesa che si inceppa
la mistica ovvietà, rappresa nello sputo
                                di un’ignorante assenza
«nel ciò che noi eravamo»
 
e forse, dopo la nebbia
nell’alba tumida di guttalax
oltre lo scioglimento preventivo dei contratti
«ancora»
                                :: e sempre ::
                                                                «siamo»
 
 
(Sonia Caporossi, Taccuino dell’urlo, Marco Saya Edizioni, 2020)
 
 
 
 

Sin dalla copertina, l’opera di Caporossi pone un enigma di struttura fondamentalmente psicologica, se non anzi introspettiva nei riguardi dell’interazione con la compagine reale ultra-personale, quando introduce nel frontespizio del libro cartaceo la tavola di Rorscharch numero 5, che identifica il rapporto con la realtà.

Questo in effetti è un indizio che non passa di certo in sordina, alla luce sopra della pratica poetica dei testi, poiché quest’ultima interroga la tematica amorosa senza lesinare di certo sopra le scaturigini e le conseguenze tragiche che un rapporto che, seppur incrinato – se non anzi completamente finito, porta in seno. Tralasciando la matrice praticamente avanguardistica della versificazione, la sostanza della stessa scova la ragione definitivamente tragica della tematica amorosa; la cui resa poetica nell’opera trapassa i concetti più strazianti della natura umana.

Tra l’amore ed il sogno, tra lo strazio del desiderio e l’abbaglio umano che questo comporta, si interpola il dettato; e questi sono gli elementi preponderanti del testo – seppur il vero soggetto del verso non sia di per sé quel dialogo che si potrebbe o dovrebbe auspicare tra gli attanti, anzi la trama e l’ordito del poemetto si tessono nella natura strutturalmente solipsistica del verso, che si incunea in una relazione ipotetica/ipotizzata tra un “lui” chiunque ed una “lei” qualsiasi, che originano da un momento presumibilmente conclusivo della relazione, o quantomeno prossimo alla fine della stessa.

E poco altro, in effetti, è lasciato al lettore in termini di coordinate geografiche interpretative, complice anche la matrice del verso – avulso di un sistema di punteggiatura condivisibile. Per questo ci si muove nell’ermeneutica, se non che la riflessione comunque rimanga adesiva all’urlo di cui il dire si fa portatore, e della coscienza in questo veicolata ed esistente in quanto autodeterminazione esplosiva del sé – contrapposta al silenzio che la precede e le sussegue.

Speculando attorno ad una direzione ed un moto di comprensione della ratio dell’opera, un indizio di natura interpretativa lo desumiamo nella nominazione delle sezioni; in quanto, muovendosi in ciò che possiamo considerare come fatto pacificamente riconosciuto, “alfa” e “omega” – indicati in greco, quindi α, e ω – consistono nella nozione di inizio e fine, genesi ed esizio di quanto vivente. La sezione mediana, tuttavia, porta la lettera “phi” (φ) come dicitura, e questo – in termini di utilizzo – squadra su un insieme di valori che passano dalla filosofia alla fisica alla geologia alla linguistica.

Di qui, volendo istituire de iure condendo una nozione di flusso in termini puramente fisici, o comunque inerenti agli studi legati alla branca della conseguente disciplina, il concetto generale di questo – semplificandone molto il senso, e sicuramente tradendo la definizione primitiva dello stesso – consta nella misura di quanto passa di una certa cosa in un determinato periodo di tempo attraverso una area di controllo bidimensionale.

Supponendo quindi di poter determinare un intento, e nello specifico imperniandosi sull’afflato strettamente lacaniano della coscienza in Caporossi, e sulla natura necessariamente comunicativa della poesia, dovremmo strutturare dunque un “fluire” che ricalca la natura liquida del pensiero e del pensato.

Ma questo – se lo assumessimo come principio generale del dettato, e volessimo veicolarlo conseguentemente e per coerenza nella nozione poetica di Caporossi – determina che in effetti non si rilevi alcuna traccia di un dialogo, quanto più la parola ricalca la natura pressocché monologale ed intimistica del dire; e qui si convoglino memorie di fallimenti individuali, echi di errori reticenti, imputazioni di ripetizioni obbligate seppur involontarie, ed incomprensioni aprioristiche che sfociano in impossibilità comunicative a valle del fluire degli eventi.

Immerso nel turbinare dei fatti di cui il verso depone testimonianza più che attendibile in quanto superstite, in Taccuino dell’urlo si incontra un semantema che non teme la sfida emotiva di incontrare il proprio nemico nella rena dell’abbandono e del rammarico, né tantomeno si sottrae alla necessità di districare la componentistica colposa (o dolosa, viste le circostanze) dell’errore e della perdita.

Anzi: il lessema di Caporossi si muove nella consapevolezza più tormentata che nulla di quanto intrinseco al desiderio umano possa concludersi una volta per tutte. Infatti, turibolando tra la complessità delle relazioni umane e l’insufficienza miserevole della fenomenicità amorosa, la ragione tragica dell’esistenza del verso giustifica ampiamente la propria esistenza alla mera luce dell’essere fluida ed irosa, per immergersi nel flusso di quanto più irrazionale ed incontrollato – e poter superare ad ampie falcate il dolorismo che piaga gli inventari della solitudine che popolano la poesia dei nostri giorni.

 

Carlo Ragliani