In continuità con gli speciali pubblicati nell’estate 2024 (QUI), si propongono alcuni articoli aventi come oggetto autori rappresentativi della letteratura italiana. La redazione prevede l’individuazione di “una parola – chiave” indicante un sentimento, un’emozione, un oggetto, un’esperienza, a partire dalla quale presentare la lettura e l’interpretazione degli autori scelti secondo direttrici tematiche e/o biografiche. Possibile nel medesimo contributo il riferimento a più autori.
Eugenio Montale e gli Ossi di seppia
La condizione dell’esilio e la lontananza dall’elemento originario
Dei luoghi e delle estati trascorse in Liguria, Montale amava raccontare anche durante gli anni della maturità. Maria Luisa Spaziani, che con lui instaurò una relazione sentimentale poi divenuta duratura amicizia, ha ricordato in un volume del 2011, dal titolo Montale e la Volpe. Ricordi di una lunga amicizia, le ragioni che spinsero il poeta a non tornare a Monterosso, nei paesaggi ispiratori della sua prima raccolta, Ossi di seppia: “[…] Il paesaggio era cambiato, ritocchi forse poco significativi per chi non c’era mai stato ma devastanti per lui. Al posto degli scogli […] c’era un parcheggio di cemento, e per colpa delle nuove costruzioni nemmeno dal terrazzino più alto della villa si vedeva più l’arco completo del mare”.
Il mare, elemento carico di ambivalenze e richiami ancestrali, tanto essenziale da indurre il poeta a comporre un intero poemetto dal titolo Mediterraneo, costituente la terza sezione della raccolta di esordio. Nei suoi movimenti costitutivi l’io lirico intesse con il mare un fitto dialogo che raffigura il passaggio esistenziale dall’infanzia all’adultità, dai sogni di “fanciullo antico” (Riviere, v. 35), desideroso di fondersi con le acque indistinte del mare, alla lucidità dell’uomo adulto, cosciente di un’esistenza arida e insensata, ridotta a “secco pendio” (Giunge a volte, repente, v. 13).
Nel secondo movimento, Montale, riferendosi alle sue estati lontane, quelle trascorse a Monterosso, presenta l’opposizione, divenuta ormai insanabile, tra passato e presente. Nella rievocazione del passato il mare, elemento fluido e vario, appare regolato da leggi in grado di agire profondamente nel soggetto, di ingenerare un senso di appartenenza e partecipazione: “[…] Tu m’hai detto primo / che il piccino fermento / del mio cuore non era che un momento / del tuo […] (Antico, sono ubriacato dalla voce, vv. 12 – 15). Nel presente, al contrario, nonostante lo sgomento ancora vivo di fronte al mare, qualcosa è cambiato. Il poeta, incapace di rispondere al suo indecifrato invito, è immerso in una condizione di estraneità che lo induce a ritenere invidiabile lo stato dei detriti depositati a riva dal flusso costante: “Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale / siccome i ciottoli che tu (mare) volvi” (Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale, vv. 1 – 2). Se al mare è riconosciuta la capacità di redimere col suo moto la materia più dura e ostile, permane saldo, nell’intimo del poeta, il sentimento dell’impossibile abbandono dell’io alle acque primordiali. Non rimane che il rimpianto del passato, dei giorni in cui, guardando gli ossi di seppia restituiti dalle acque agitate, sognava di scomparire per rinascere sorgente “ebbra di sole, / dal sole divorata” (Riviere, vv. 32 – 33).
Relegato sulle sponde come gli scarti del mare, Montale vive pertanto il proprio esilio, ormai cosciente dell’inevitabile separazione dall’elemento originario, “patria” da cui l’individuo è ormai lontano. Il mare non cessa tuttavia di sedurre e respingere il poeta, come i resti prima accolti e poi lasciati a riva dalle correnti. Nell’ultimo movimento del poemetto, dal titolo Dissipa tu se lo vuoi, il dolce suono delle onde scuote la tranquillità dell’io lirico, provocando uno stupore assimilato dal poeta a quello provato da un soggetto che, avendo perso la memoria, si desta improvviso al ricordo della sua patria perduta: “Ma sempre che traudii / la tua dolce risacca su le prode / sbigottimento mi prese / quale d’uno scemato di memoria / quando si risovviene del suo paese” (vv. 11 – 15).
Svanisce – non può essere altrimenti – anche il sogno, cullato nel corso della giovinezza, di “rapire” al turbinio delle acque le “salmastre parole” (Potessi almeno costringere, v. 7), attingendo a una lingua capace di confondere sul modello dannunziano natura e arte, in un’unica inesauribile vitalità. Ma se la parola “originaria” risiede sul fondo dell’abisso, non può raggiungerla chi sente di appartenere alla “[…] razza / di chi rimane a terra” (Falsetto, vv. 50 – 51). A rimanere soltanto “[…] le lettere fruste / dei dizionari” (Potessi almeno costringere, vv. 11- 12), una letteratura inadatta a esprimere la verità più profonda e indefinibile. Il poeta, afferma Montale in una sua famosa lirica, possiede solo “qualche storta sillaba e secca come un ramo” (Non chiederci la parola, v.10), incapace nel pieno dell’adultità di accordare la propria storta balbuzie al moto vivo e primigenio del mare.
Giulio Mazzali
Riferimenti bibliografici
Eugenio Montale, Ossi di seppia, a cura di Pietro Cataldi e Floriana d’Amely, Mondadori, Milano 2022;
Maria Luisa Spaziani, Montale e la Volpe. Ricordi di una lunga amicizia, Mondadori, Milano 2011, pp. 32 – 34;
Virginia di Martino, Figurazioni dell’acqua nella poesia italiana del primo Novecento (Tesi di Dottorato), Università degli Studi di Napoli Federico II, 2007, pp. 27 – 33.