2. È proprio necessario l’io in poesia?

Notte stellata, Van Gogh, 1889

 
 

Per la seconda puntata del mini corso di poesia che si appoggia sui testi pubblicati dai lettori sul gruppo Facebook Laboratori Poesia prendiamo una poesia di Stefano Canepa dell’8 agosto.

 
 
Come una lama
 
Se la notte
verrà a prendermi
mi troverà nudo
abbracciato all’ombra
E non so se morirò
di qualche nostalgia
ancora da tremare
sulle ali di una seta
 
Se la luna
affonderà le sue unghie
nel petto profondo
non proverò dolore
 
Ma accarezzerò la voce
che mi penetra dentro
come una lama
di ghiaccio affilato
 
Sui bordi del buio.
 
 

Il testo si presenta, similmente a quello di Roberto Cianciolo nella prima puntata di questo mini corso (qui), come un’espressione della propria emotività che raggiunge, più che un tono poetico, una posa.

Perché la poesia è tante, tantissime cose, ma soprattutto è uno stratificarsi di significati e significanti che tendono a un punto altro, terzo rispetto alla nostra destinazione consapevole.

Gian Mario Villalta, in un appuntamento di Una Scontrosa Grazia, ricordo disse: poesia è partire da un punto A per arrivare a un punto B, trovandosi alla fine in un punto C che non ti aspettavi.

Poesia è tendere a un punto ma, nel lavorio, nel maneggiare la parola, trovarsi a dire qualcosa di ben più ampio di quanto inizialmente immaginavamo. Perché scrivere poesia, per quanto ampia e piena di molte strade e stradine diverse, può essere riconducibile alla seguente struttura:

 
 

1. leggere e studiare a fondo gli autori del passato e i contemporanei, capendone stili e messaggi

2. vivere una determinata esperienza che stimola la mente a una rielaborazione che tenga conto di studi e letture fatte per comprendere e dire qualcosa che è successo o si è capito (si veda ad esempio Dire di Fabio Michieli, qui)

3. scrivere quel che si voleva scrivere

4. chiedersi se quel che si è scritto funziona, comunica

5. rendersi conto che le parole, rese consapevoli dagli studi e letture fatte e inconsapevoli dalla rielaborazione personale, si legano e dicono qualcosa di altro rispetto a quanto avevamo in mente di dire

6. limare il testo sulla base della presa di coscienza del messaggio altro implicito nel testo

7. chiedersi all’interno della propria contemporaneità come si inserisce tale testo, o meglio l’opera nella quale è il testo

8. rivedere il testo sulla base di quest’ultima riflessione

 
 

Queste sono le linee guida che, bene o male, un poeta segue nel momento in cui scrive una poesia. Ovviamente stiamo parlando di una poesia che vuole essere tale, non un’espressione da baci perugina o acchiappalike che non contesto ma ha un’altra dinamica e un’altra collocazione (anche se potremmo intravederla anche in certi autori molto riconosciuti oggi).

Linee guida che, come si sarà immediatamente compreso, fondano le loro premesse non sull’autore ma sulla capacità dell’autore di leggere e contestualizzarsi. Senza questo, a parere di chi vi scrive, non c’è poesia.

Stefano Canepa, nel suo testo, che pure ha un ultimo verso pregevole (sui bordi del buio) che avrebbe meritato ben altra cornice, è un chiaro esempio di uno dei maggiori rischi in cui un autore che vuole avvicinarsi alla materia poetica può incappare: l’io.

Voglio dire: ci serve veramente l’io in poesia? Siamo veramente così interessanti da raccontare quello che sentiamo e proviamo agli altri? Perché parafrasando il testo di Canepa otteniamo:

 
 

Se mi troverò una notte sveglio sarò spogliato di qualcosa (vestiti? paure?) e aggrappato a qualcosa di effimero (l’ombra è un riferimento a Peter Pan?). E mi chiedo se starò male per qualche nostalgia che mi verrà in mente e che mi farà tremare come su un (lenzuolo?) di seta che sarà leggero e mi farà pensare ad altro. Se vedrò la luce della luna, in questa notte, non starò male nonostante mi ricordi qualcosa (o nonostante la luna abbia per me un significato) ma scriverò o dirò qualcosa di così prezioso, che ho dentro, che sarà acuto come una lama ma crudele come un pezzo di ghiaccio affilato che può accoltellare/ferire con il suo significato. Tutto questo nella notte dove io sarò riuscito a mettermi a lato di tutte le paure e nostalgie trovandomi ai bordi del buio, in una situazione di confine che è anche un punto di vista diverso.

 
 

Come si può intuire, pur essendo la mia una personalissima interpretazione del testo (ma in quanto lettore ne ho diritto), è evidente che il tutto gira attorno alla propria capacità di dire qualcosa che viene lodata a prescindere, che viene esposta come una lama / di ghiaccio affilato senza però entrare nel merito di cosa dice. All’autore basta che esista la voce in quanto espressione dell’io.

Ma è veramente così? E il lettore? Il lettore non ha forse bisogno di un aggancio un po’ più universale? Non ha forse bisogno di identificarsi con l’autore per trarre le proprie conclusioni (che non saranno, in tutto o in parte, quelle dell’autore)? L’io in questo caso è un limite estremamente forte per una voce che magari ha cose ottime e grandi da dire, ma che non riesce a esprimerle perché chiuso in se stesso.

La domanda da porsi, quando si affronta una poesia che stiamo scrivendo, è: cosa sto scrivendo? Cosa sto dicendo? Oltre queste domande io credo sia molto difficile parlare di poesia.

Alessandro Canzian