Di recente pubblicazione Voragini d’azzurro di Adriana Tasin (Interno Libri, 2025) cui tengo particolarmente non solo per la sorellanza di amicizia con l’autrice e i comuni luoghi del cuore nelle Dolomiti di Brenta, ma anche per la tensione emotiva e l’esperienza conoscitiva e riconoscitiva in cui quest’opera mi ha accompagnata; un libro che amo dunque, ho visto nascere e crescere. Credo nella sua pubblicazione e diffusione, perché ha un forte potere evocativo, un’apertura luminosa anche nel tragico, una dolce ruvidezza nelle verità sottese e nel linguaggio. Saprà affascinare sia chi ama la montagna sia chi la legge solo come allegoria.
Leitmotiv, pretesto e collante è il tema dell’arrampicata su roccia, disciplina cui Adriana si è avvicinata tra il 1996 e il 2000 e che si ripresenta in questa raccolta con tutto lo slancio della tecnica (efficace l’uso di termini settoriali) e l’armonia del gesto realmente compiuto; il tema è rinforzato dal carico dell’esperienza di vita in montagna che riverbera nella scrittura: gli amici, le cordate, l’amore, le letture, l’incontro con la poesia e la sua insistente pretesa di scavo e attenzione, precisione. L’arrampicata ha un valore mistico senza fraintendimenti (dopo poeti e alpinisti, il primo personaggio definito in affaccio è uno sciamano), ma è anche un’allegoria della poesia (il testo di apertura consegna alla parola poetica un destino messianico: sempre rotolava la parola focaia dalla bocca e oltre la parola urlata illeggibile [solo sentita/ nel vago] / disseppellirono i poeti e gli alpinisti i / dissensi).
Scalare così, metaforicamente, e scrivere così è possibile solo a chi può, oltre la vetta, riportare la montagna a scendere con sé in umana e fragile dimensione orizzontale al di là del “mezzo del cammin”. E la roccia lascia fare, trasfigurata ormai in mondo altro, oltrevita e non-luogo delle anime, ammantata del fascino del pericolo in parete che sfida l’uomo a farsi parete (quasi un canto di sirene), del richiamo a nozze mistiche in unione con la natura, del paesaggio che si fa piccolo e immenso, muto, allontanato in dimensioni oltreumane. La paura di lasciare, di perdere la presa e del limite invalicabile in avvicinamento: di fronte agli occhi in sospensione / una bestia / / che tu chiami a voce alta paura / l’accarezzi e l’allontani …paura (p. 38), più avanti non è nitido il confine sulle cime né chiaro / dove da lì tu possa / arrivare senza il dolore / / di vedere dall’alto / i tuoi gesti cadere / dietro l’ultimo profilo a coltello / sentirne appena il respiro calare (p. 46).
Da qui Tasin riesce a riportare lo sforzo a una poltrona di vecchiaia, a una casa dove le dita cercano ancora l’aggrappo per aprire uno stipetto, per tenersi a questa esistenza, e il movimento è orizzontale, la posizione è orizzontale, un letto di ospedale è orizzontale, anche la lirica volge progressivamente in prosa, i campanili di roccia si fanno lago, mare calmo. Tutto precede il saluto definitivo, o il rimando (è la parte terza: “C’è una cattedrale che scende e un lago che sale”): cuci con gli occhi la via – parete est – al tavolo di cucina / spaesando con la matita sulla traiettoria alzi lo sguardo / segui le fessure dei pensili i rilievi dei muri / il soffitto strapiombante / / si aprono possibilità mai contemplate / / tenti la manovra del ricordo per poi di nuovo scartare / calarti a corda doppia – sfinito – sulla sedia di casa (p. 61)
nemmeno gli specchi riflettono il vero
quando la caduta rimbalza sull’orlo del vetro
in un’ora diversa da quella abitata
nell’equinozio a rovescio il laccio sfila
la morte accade nel palmo
precipiti senza il peso dell’essere
ma del tuo solo cadere
e non c’è più nodo né modo che basti qui
(p. 75)
Tasin ci ha abituati a uno stile asciutto e dirompente, che qui si ripropone, come agli esordi, in veste lirica (non che i contenuti civili di Fatti reali immaginari però non avessero una narrazione dai bagliori liricheggianti, un bel pregio a mio parere), ma acquista sicurezza, osa sugli aspetti grafici e non disdegna come dicevo la prosa poetica per giungere a una dimensione di orizzontalità, così come esprime effetti di scale o precipizi verticali attraverso l’‘a capo’. Le dita e la loro ricerca (di traiettorie, salvezza, di un dio?), la capacità di scavo e adattamento, la destrezza, sono forma del poieìn, del fare poetico.
alla base della parete tu misuri
– a palmi d’occhi –
le linee immaginarie verticali
con la testa nelle vertigini
fai presa nell’aria
mani vuote quasi ali
quasi sali
(p. 28)
crepa, crepa, crepa poeta! [dici]
infila le mani nel buio che hai dentro
tocca quel male
come una cosa un amen una rosa
(p. 63)
Una scrittura meditata, da seguire nel suo andamento narrativo, nei fili sottili di una vita intera (non di una semplice arrampicata) o, meglio, di due vite protagoniste in dialogo e altre che si affacciano con trasporto evocativo. Il lettore non può sfuggire all’incontro con qualche persona mancata del proprio vissuto, non può non cogliere il mistero della neve, del ciuffo d’erba ostinato su un centimetro di roccia assolata, del linguaggio muto del proprio animale guida; non può non tentare il calcolo dei conti in fiducia sdrucciolevole con il chiodo che trafigge, perde presa ma può salvare, con la corda che solleva ma che si può spezzare, con il pericolo tanto più all’erta quanto meno lo si teme, con i morti che spariscono, ma ci aspettano: fiducia anche in ciò che può tradire, altrimenti non è amore.
Camilla Ziglia
stai per alzare il piede e guardi la mano
aggrappata alla minuscola crepa
bisogna fidarsi del varco [dici]
(ne vorresti sempre misura precisa)
però lì non esiste alcuna certezza
se non quella di essere appesi come luce al lampadario
della stanza
immaginare
il centro del cielo
(p. 58)
non è che si può trascinare così in alto la vecchiaia
al più si può farle vedere il ciglio del pericolo
condurla a passi tremanti alla soglia temuta
a rivedere all’ufficio anagrafe la data
scivola dall’ultima sosta all’abbraccio vuoto delle scale
nella meraviglia bianca di dolomia scende senza un addio
(p. 66)