Tra perdita reale e tracollo virtuale: Ipotesi sul mio disfacimento di Bernardo Pacini


da Pordenoneleggepoesia
 

Per cominciare a parlare di Ipotesi sul mio disfacimento, il nuovo libro in versi di Bernardo Pacini (Mar dei Sargassi, collana Apnea, 2024), mi fermo più del solito sulla soglia del titolo, conoscendo le esitazioni grammaticali su cui l’autore ha ragionato, e che non sono quasi mai slegate dal senso complessivo di un’opera. Ad esempio Pacini avrebbe anche optato per un determinante (Le ipotesi…), che avrebbe però finito per dare al sintagma una coloritura umoristica (quante ipotesi? Sette, otto, dodici…?), bastando invece la levità ironica del sostantivo (ipotesi, appunto, e non certezze). È stato poi per un poco in bilico l’aggettivo possessivo, che decisamente attenua il portato assoluto e universale di quel disfacimento, e stipula fin da subito un patto con il lettore che però, lo vedremo, verrà in parte deluso. Queste cose si intravedono attraverso le pareti di una casa di vetro, a condizione di essere filologi accaniti o semplicemente lettori amici.

Dicevo che un lettore paziente del testo di Pacini dovrebbe accettare una piccola attesa frustrata per poterlo attraversare nel modo giusto. Il titolo definitivo sembra infatti preludere a un confessionalismo e a un’apertura soggettiva che però avvengono solo attraverso moduli schermati, pudichi, ironici, in un quadro di controllo formale e musicale, di energia emotiva trattenuta che è in parte la ragion d’essere stilistica di questa poesia. Già nel libro precedente, Fly mode del 2020, il drone era uno stratagemma figurale per parlare di sé in modo mediato, attraverso uno sguardo meccanico e sopraelevato e in grado di evitare sprofondamenti nell’interiorità emozionale. Ecco invece due momenti nel nuovo libro dove l’intimità è similmente delegata a un elemento altro rispetto al soggetto, nel primo caso “un cigno che pedala nel buio a pelo d’acqua” su un lago artificiale, e il cui “modo di non chiedere spiegazioni/ è quello di chi guarda un’altra volta/ a un fatto doloroso del passato” (p. 9): così tra la memoria personale e umanamente ferita e la sua espressione poetica si colloca nel mezzo, come elemento retorico di prolungamento e separazione, il “blocco anatide degli occhi”. Molte pagine dopo il poeta ricorre a un più classico correlativo-oggettivo per raffigurare lo stupore e la sospensione del ricordo (infantile?), con qualcosa del rammarico delle cose incompiute: “Il mio passato è la luce bianca che illumina/ la sala espositiva dei pianoforti/ all’ora di chiusura” (p. 68). Talvolta a far da diaframma tra l’io e la sua esposizione è piuttosto la boutade, il gioco di parole, come nel refuso rivelatore “quantomeno/ quantomento”, che ricorda il Pessoa del poeta fingitore, e che ancora testimonia un rapporto problematico, conflittuale con l’espressione di sé (“Spero che scriverlo mi aiuti quantomento/ a capire quanto mento quando scrivo”, p. 10) e con la scelta di uno sguardo da cui adocchiare il mondo, anche se “non c’è rimedio per l’estraneità” (p. 11) e da osservatori si diventa osservati e perfino incalzati (“Come un leone scappato dal circo/ mi aggiro tra le vie residenziali”,  p. 16). Se poi si vuole indicare, come una certa espressione pigramente corriva richiede, una immagine che da sola valga tutto il libro, personalmente sceglierei questa: “il sole che accoltella come Amleto la presenza/ che lo origlia dietro al velo/ della bruma mattutina sopra al mare” (p. 42). Il riferimento è ovviamente alla famosa scena in cui Amleto, a colloquio con la madre, accoltella e uccide per sbaglio Polonio, padre di Ofelia e consigliere da strapazzo del re Claudio, che si era nascosto dietro una tenda a origliare. Direi che ogni libro cerca in qualche modo di accoltellare una presenza dietro la tenda, e allora ci si potrebbe domandare: in queste Ipotesi, chi è il Polonio di Bernardo Pacini?

Andrea Accardi

 
 
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