Tenere Insieme, Gabriel Del Sarto (Samuele Editore-Pordenonelegge, 2021).
Come da titolo, la raccolta del nostro instaura un luogo sostanziato nella potenza di poter stringere la realtà, fatto con fatto, ferita con ferita; una sede, fisica e metafisica insieme, ove collezionare le fatiche poetiche di Del Sarto.
Una testimonianza che, seppur mediata (certamente) dall’intento antologico dell’autore, non per questo ci dona un corpo artistico che pecchi di autenticità, o serietà degli intenti: al contrario, quest’opera trova esatta conferma di spessore nella fermezza di volersi ri-consegnare al lettore, presentandosi in una veste poetica rifabbricata nel dettato e nel suo contenuto.
In seguito ad una ampia selezione e revisione di genesi auto-critica dei propri testi, l’opera si dona non già come silloge da intendersi nel mero significato di spazio fisico ove trattenere la composizione; bensì come pagina ove imprimere l’avvenuto, e da cui desumere che quanto detto (perché scritto) sia destinato a non rimanere, nonostante la necessità di conservare quanto si possa trarre in salvo dalla fauci voraci del tempo.
Confrontandosi con Tenere insieme, non si può non notare che, alla luce dell’interezza della produzione del nostro, questa silloge consista nell’effettuare un’operazione di florilegio – una cernita ed una riscrittura, quindi, che ha investito più di un decennio di scritti, affinché questi siano trattenuti, mantenuti persino, dalla volatilità che l’arte poetica, come la vita, attende.
Di qui, se volessimo spingere la speculazione oltre l’evidente, non sarebbe eludibile non indicare che sia iscritta a questa scelta la volontà intimissima di salvare (anche, e soprattutto, nel senso etimologico del termine, perciò conservare) ciò che è fondamentale alla poesia per essere tale, senza poter escludere anche ciò che sia di fondamento alla vita, in quanto tale.
Partendo da questo, l’opera si concentra come momento sintetico; o meglio: nella pagina si coagula una presa di coscienza, caratterizzata sia dalla necessità di preservare il necessario, che di riscrivere le esigenze che furono le ragioni della poesia – se non anzi dimostrare che la sostanza non riesca, nonostante tutto, a sottrarsi all’impermanenza dell’essere, ed alla corruzione di cui tutta è intrisa la realtà.
Per questo i motivi sottostanti alla scrittura di Del Sarto, via via perfezionati e raffinati, non vengono mai in realtà cancellati o messi da parte; principalmente perché questi individuano una via di decoro poetico, che si fa completamente umano solo nell’accettazione della parola come ragione per arrestarsi ai limiti del buio.
In ultima istanza si potrebbe riflettere che quanto posto in salvo dall’opera di crestomazia non sia che il nucleo sostanziale dell’Opera, e di conseguenza anche dell’esistenza, la cui ragione più profonda risiede nella scrittura poetica – riesumata e riscoperta grazie ad un’opera di contrattura e restrizione.
In tal senso l’autore sembra preservare ogni cosa imbevuta della cronologia della perdita, restituendo quella dignità che ciò-che-esiste-perché-scritto mantiene e cova poiché onorevole ed esistente.
Tuttavia, Del Sarto sembra per altro proferire che nemmeno il reale si può preservare nella sua integrità, una volta traversato il confine tragico del non essere, e del non esser più.
L’orizzonte degli eventi in cui si dischiude la poesia del nostro enuncia una sorta di macrocontesto culturalmente impregnato del sentore della divinità giudaica, come dimostrano le varie “scene” (se non, altrimenti, gli elementi ripresi) descritte, e re-incise sulla carta.
Il che potrebbe anche profilare un certo esistenzialismo, allignato nel terreno della religiosità cristiana, per cui l’effetto diegetico con le varie figure religiose sembra enucleare una sorta di intimissimo rito di rielaborazione della realtà, nello scandalo e nella tacita disperazione.
Il protagonista assoluto del dettato, rispondendo di controcanto alla spinta fideistica, potrebbe instaurarsi nell’io poetante, soprattutto nel suo dialogismo esteriorizzato in un tu, altrettanto lirico.
Ma, in verità, è un certo “memorialismo” delle circostanze vissute dall’attore del verso ad incentrarsi come personaggio principale dell’interezza del testo.
Infatti, distillando una nostalgia profonda, il ricordo si diffonde capillarmente nel dettato; e ne intesse per tanto la meraviglia di aver partecipato sia al quotidiano, sublime nel paradigma memoriale, quanto a ciò che desta meraviglia e stupore, perché reificato nel verso.
Il che, tornando all’archetipo fideistico, introduce un elemento di particolare rilievo critico risultante dal colloquio tra lirismo e fede: non una attesa, non una assenza smargina dall’orlo del testo; né anche la relazione e la dinamica tra queste si possono ricavare esplicitamente dall’opera in questi termini, ma la delusione e la sofferenza, e la desolazione di dover assistere al miracolo inesaudito, accettandone l’imperfezione, rimangono alla parola.
Infatti, non lesinando sicuramente di spaziare (senza soluzione di continuità logica e contenutistica) tra Primo testamento e Scritture sinottiche, le figure bibliche che vengono introdotte dall’autore accolgono le suggestioni analogiche del codice ermetico-interpretativo che questi soggetti portano in sé, e si rivolge al concreto significato in queste serrato.
Il tanto, una volta traslato sul versante poetico, incardina un sentore dialettico e fraterno con i soggetti introdotti; e questo slarga concettualmente al di là di ogni significato teologico assieme al lettore, quasi instaurando un senso simbiotico tra significato del soggetto sacrale, ed interpretazione dello stesso.
L’apposizione di due piani, intimo ed accaduto, deinde spirituale e materiale, procede da un atteggiamento di fondo che singolarmente trasmette una certa insicurezza, estraneazione perfino; forgiando un senso di veritas fidei che contrappone al disinganno della vita la necessità di dover credere, se non anzi il bisogno di poter credere.
Una debolezza che si converte nella forza necessaria per mantenere assieme tutti i tasselli di un mosaico incerto, e nella tensione che (sottesa tra rievocazione e scrittura) la concretezza della vita conosce, ed interpreta.
Carlo Ragliani
SABATO
Amico del nazareno, più accettabile è il giorno
per la pena, il dolore che gli è compagno,
dolore da non perdere,
da non dimenticare
come mai si dimentica
la primavera durante l’inverno. Un avvicinamento
costante ad un qualcosa di più amato, forse
solo ad una pazzia, o una povertà maggiore.
Ma ora proprio ora qui tra questi panni
da stendere, capire un gelo pigro che non attende
più la resurrezione, il solo tuo riscatto. Pescatore,
senti questo canto: dal mare viene ogni cosa, dal male
viene ogni male ed ogni cosa, tu, satana e pietra,
callosa verità umana,
pescatore, che se, a sera, ti penso,
a cosa è rimasto della tua storia
a cosa della tua preghiera.
Amico del nazareno, il vento che ora soffia è caldo come
è caldo il sangue che ci unisce, e ci fa nella vita uguali
esposti alla sua prova.
Oltre la frontiera rimane solo una canzone di un coraggio
superiore
nel cuore bellezza non cumulabile.
A 3 KM, GABRIEL
Radiosa, quest’ora,
e violenta di luce
dovresti (vorrei che tu..) vederla esplodere dall’albero
di Natale
ancora da disfare, e dallo striminzito presepe – piuttosto
la mia tristezza cresce, tristezza casalinga.
È quasi mezzanotte, anche a 3 chilometri da qui
e quest’ora no, quest’ora lo sai non è più
mite… le necessità, le cause di forza maggiore
hanno fatto andare a male il burro nel frigo, è scaduto
di qualità il mio poeta preferito e devo
stare attento al latte: le circostanze sono
fatte
così. Indecenti.
No, ti dico, è davvero questo lo scandalo
della vita: il sacrificio, la coatta fatica – eppure
tutto è come un soffio – se ti vuoi
salvare.
Considera la saliva
la bava del vecchio Giobbe, l’ostinato che già ci predisse,
e considera le sue grida verso Dio: consegnandoci
cosa se non la più grande speranza,
quell’impensabile diritto alla disperazione?
L’angelo
Gabriel annunciando il Figlio dell’uomo, il bimbo (accorrete
o voi che ascoltate), l’arcangelo Gabriel splendente
di gloria andando
per strade piazze palazzi, Gabriel
ha portato il mio saluto a 3 chilometri da qui.
Aspetterò il sabato
pomeriggio, comprerò delle bibite:
immagina: noi colle amarene Fabbri sul gelato allo yogurt
mentre ripristiniamo scene bibliche.
IV – L’OPERA DELLA MEMORIA
È pur sempre cielo anche questo d’estate senza sole,
argenteo e con una pazienza
nell’aria a malapena distinguibile dalla stanchezza
delle cose.
Ne viene una delusione, la nostra,
stremati nelle fibre da quest’attesa amorosa,
corporea – sono ormai
millenni, e noi vecchi e stanchi
a soffrire pure l’inarrestabile desiderio.
Ma forse magnifica già sarebbe la nostra sorte,
eclatante, dolcissima vampa autunnale,
se solo potessimo crescere sereni lasciando irrisolti,
i nostri perché – gomme americane frizzanti
crepitanti sul palato, veleni
per lo stomaco e risate
fra noi bimbi, increduli. Le prime promesse
di una felicità possibile, in pacchettini
cromati.
La memoria trattiene odori
amorosi, e tattilità, la chimica cerebrale,
lo stupore – e tu
hai segnato molte molecole,
impercettibile, come tutti i tuoi doni riluttante.
i cigni, gli occhi lucidi – immagini
ansiose, grumi.
Ma lascerei, ora, socchiuse le persiane,
in una penombra silenziosa, una leggera
contr’aria, e le lenzuola color crema stropicciate,
liste di luce. Girovagando
per case mai fisse, e nel pomeriggio
i soliti problemi di economia familiare. La spesa,
bollette non pagate.
Proseguire, come una necessità, un ostinato
discorso d’amore, biografia. Salmodia delle ore.